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Wall of dolls, condannate a essere bambole: se la lotta alla violenza è patinata

Muro delle bambole: un folla di persone di fronte all'installazione a Roma
Muro delle bambole: foto dalla pagina Facebook

Arriva anche a Roma, come una presenza mortifera, Wall Of Dolls. L’installazione, una griglia a cui sono appese delle bambole, vorrebbe simboleggiare la lotta alla violenza sulle donne rappresentando un muro di silenzio da abbattere, demolire, scuotendo le coscienze di chi vi passa accanto.

Ideato dalla cantante e conduttrice Jo Squillo, questo “muro delle bambole” è stato inaugurato nel 2013 a Milano. Stilisti hanno donato vestiti e borse per le bambole, politici hanno presenziato agli eventi inaugurali e tanti personaggi femminili del mondo dello spettacolo, da Paola Iezzi a Ivana Spagna, hanno fatto da testimonial posando con le bambole.

Insomma, più che arte sociale parrebbe la solita parata di personalità più o meno famose che cercano consensi tutte insieme appassionatamente in nome di una buona causa.

Con il rischio di far diventare la lotta contro la violenza un marchio, una moda.

La scelta del simbolo della bambola è indicativa. Sappiamo fin troppo bene che i simboli sono importanti e il problema è che spesso rispecchiano non solo la cultura dominante ma anche i suoi stereotipi.

La prima sensazione che evoca la foto del muro delle bambole è orrore. Come si possono usare le bambole per simboleggiaree la violenza sulle donne?

La bambola è un gioco. Accostare la violenza sulle donne a un gioco per sensibilizzare sul tema è un po’ come fare un muro di macchinine per sensibilizzare sugli infortuni stradali o un muro di Lego per sensibilizzare sugli infortuni di lavoro nei cantieri. È difficile pensare che automobilist* e lavoratori/trici possano rispecchiarsi in un giocattolo.

È ancora più difficile pensare che possano rispecchiarvisi le donne, che spesso vengono oggettivizzate, infantilizzate, dipinte come vittime indifese piuttosto che come sopravvissute alla violenza.

Un’idea purtroppo confermata anche dal motto di questo progetto: “we are not just dolls”, non siamo solo bambole. Il senso è ambiguo e rimanda alla solita immagine della donna come oggetto inanimato, inerme. Una donna che nell’installazione diventa priva di volontà, appesa, esposta agli sguardi morbosi della gente che passa e che – magari – si scatta pure un selfie accanto alla più carina.

Muro delle bambole: Jo Squillo posa di fronte all'installazione
Muro delle bambole: Jo Squillo in una foto dalla pagina Facebook

Questo tipo di informazione patinata sulla violenza di genere, sui femminicidi, la rende più appetibile a case di moda, personaggi politici, dello spettacolo, offrendo visibilità mediatica in cambio di mancanza di contenuti.

Il video di promozione dell’evento di Milano, per esempio, sciorina agghiaccianti statistiche senza commentarle, accompagnandole a musica danzereccia, associando così la violenza all’intrattenimento.

Anche se l’idea del muro sarebbe quella di promuovere un cambio repentino di rotta, la rivoluzione culturale non si può scrivere con simili progetti vacui e deleteri. A noi pare l’ennesima occasione per condonare, con il beneplacito delle istituzioni, un simbolismo che rafforza stereotipi dannosi.

Per questo ci ha stupito vedere tra le testimonial anche un’ambasciatrice della lotta contro la violenza contro le donne come Lucia Annibali, molto attenta soprattutto all’educazione dei più giovani su questi temi.

Ci stupisce meno, invece, che l’iniziativa, a Milano, abbia avuto molta partecipazione di donne e ragazze, visto che proprio la mentalità comune spinge loro, fin da piccole, attraverso l’interazione con le bambole, a interiorizzare passivamente il ruolo di cura, di sottomissione, di bellezza stereotipata.

Ma solo perché un’iniziativa è partecipata, solo perché permette di ricevere una conferma gratificante dell’immagine che si ha di sé, non significa che operi un cambiamento di mentalità.

Ci viene in mente, guardando questo muro di bambole inanimate, la frase di una vecchia canzone italiana, che parla di stupro e violenza: nel gioco di bimba si perde una donna.

L’obiettivo di una campagna antiviolenza non dovrebbe essere quello di far smarrire le donne in ruoli deformati dalla cultura maschilista, ma spingerle a essere soggetto di decisioni, desideri e azioni che sentono propri. A tutelare la propria libertà, la propria autonomia, per proteggere se stesse.

Le donne non sono oggetti inanimati, non sono dei giocattoli, tantomeno bambole appese. Neanche quando subiscono violenza.

Articolo di Silvia Palmas e Storm

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