Le rivolte scoppiate negli Stati Uniti dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia, hanno scatenato una vastissima mobilitazione contro il razzismo e gli abusi delle forze dell’ordine in tutto il mondo, Italia compresa.
Gli scorsi giorni abbiamo assistito a pubbliche manifestazioni di supporto anche da parte di alcune figure politiche: la deputata Laura Boldrini è intervenuta alla Camera e si è inginocchiata, insieme ad altri parlamentari, in omaggio alle proteste.
Dichiararsi contro ogni forma di discriminazione però non basta e non deve bastare, soprattutto in un paese come l’Italia che fatica ogni giorno a fare i conti con un razzismo sdoganato, interiorizzato e oltremodo diffuso, con una società profondamente patriarcale e sessista e con il suo passato coloniale rimosso e sminuito (basta osservare come vengono derubricati i crimini compiuti da Indro Montanelli nei confronti di una bambina etiope quando si arruolò volontario nelle truppe fasciste).
Quello che manca, che non si è visto e non si vede è una esplicita condanna alle forme di razzismo presenti in Italia sotto i nostri occhi, una presa di posizione politica e legislativa che trasformi in azioni concrete quelle che altrimenti rimangono parole al vento. La mancanza di discontinuità rispetto al governo precedente e alle sue politiche disumane contro i migranti, le decisioni legislative (non) prese rivelano il paradosso e l’ipocrisia di chi al governo si dichiara antirazzista ma nei fatti non agisce di conseguenza.
Il 16 giugno il sindacalista Aboubakar Soumahoro si è incatenato e ha iniziato lo sciopero della fame nei giardini di Villa Pamphilj a Roma, durante le giornate di incontri del governo dedicati all’economia, chiedendo una riforma della filiera agricola, un Piano Nazionale Emergenza Lavoro e la modifica delle politiche migratorie italiane. Dopo sette ore di presidio Soumahoro è stato ricevuto dal premier Giuseppe Conte il quale ha dimostrato per le proposte avanzate un interesse che dovrà essere ovviamente comprovato dalle prossime decisioni legislative del governo.
Siamo appena usciti dall’incontro con il Presidente del Consiglio @GiuseppeConteIT, nel quale abbiamo presentato le nostre proposte. Vi ringrazio tutte e tutti per il sostegno e la solidarietà. Continuiamo a lottare per la nostra comunità. #nonsonoinvisibile pic.twitter.com/0HihYVZuoh
— Aboubakar Soumahoro (@aboubakar_soum) June 16, 2020
La beffa della sanatoria
La recente sanatoria approvata con il Decreto Rilancio è la dimostrazione della mancanza di volontà di scardinare e abbattere le oppressioni che vivono le persone che subiscono razzismo in Italia. Infatti, il provvedimento, che dovrebbe parzialmente regolarizzare soltanto lavoratrici della cura e braccianti, a circa due settimane dalla sua approvazione, sta presentando numerose difficoltà di applicazione.
Come denunciato da sindacalisti che combattono per i diritti dei braccianti e dalla campagna “Siamo qui – Sanatoria subito!”, dopo venti giorni di sportelli informativi e di osservatorio sulle procedure emergono chiaramente le criticità delle norme approvate. Secondo quanto dichiarato nell’appello per la mobilitazione territoriale e nazionale, queste «non solo lasceranno migliaia di persone senza permesso di soggiorno e senza diritti, ma produrranno discriminazioni, indurranno i migranti che hanno già un posto di lavoro ad abbandonarlo con il miraggio di regolarizzarsi nei limitati settori economici previsti dal decreto legge e alimenteranno le speculazioni ed i raggiri ai danni di migranti».
Le morti invisibili
Allo stesso tempo le condizioni di chi vive nei ghetti e negli accampamenti informali intorno ai campi sono sempre più drammatiche: il 12 giugno in seguito a un incendio è morto nel ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, Mohamed Ben Ali, un bracciante che dormiva all’interno di una baracca. Si tratta dell’ennesimo decesso, l’ennesima strage che avviene nei luoghi dove “invisibili” vivono allo stremo tra caporalato, lavoro nero, stretta della criminalità organizzata, sfruttamento.
Negli anni i luoghi informali dell’abitare sono diventati terreno elettorale tra sgomberi e guerra tra poveri, ma non si è mai si cercata una soluzione reale che non fosse emergenziale o ancora più ghettizzante per far fronte al problema della segregazione abitativa.
La situazione dei lavoratori e delle lavoratrici nelle campagne italiane è quindi una delle rappresentazioni del problema delle disuguaglianze presenti in Italia, del razzismo diffuso ma sempre taciuto, mascherato, nascosto.
Migliaia di braccianti continuano a essere sfruttati, a vivere in condizioni disumane e a morire nelle nostre campagne: rispetto a queste circostanze l’atteggiamento dei governi rasenta però la totale indifferenza e condanna all’invisibilità decine di migliaia di persone.
Tale indifferenza e invisibilità si aggrava ulteriormente quando volgiamo lo sguardo alla condizione delle donne immigrate che lavorano e vengono sfruttate in campo agricolo. Nell’analisi e nella denuncia delle condizioni delle persone considerate “invisibili” e del razzismo presente in Italia è necessario, infatti, non dimenticarsi della componente femminile del bracciantato che vive una serie di oppressioni che si sovrappongono e intrecciano tra loro.
Donne migranti ignorate dal dibattito
Come evidenziato nell’articolo di Clara Vecchiato, l’articolo 110 bis del Decreto Rilancio riguardante la regolarizzazione invisibilizza e ignora il lavoro femminile e le sue problematiche. Si tratta di una modalità operativa non nuova, che sottende un approccio non adeguato alle complessità insite nella condizione di queste lavoratrici.
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Nonostante sia in Europa che in Italia la componente femminile nel mercato del lavoro agricolo non risulta predominante, da un punto di vista qualitativo la loro presenza non deve essere trascurata.
Gli studi e le ricerche sugli sfruttamenti in agricoltura nei paesi ad alto reddito si soffermano solitamente sulle problematiche dei lavoratori immigrati maschi, ignorando e privando di una narrazione propria la popolazione immigrata femminile, i cui vissuti costituiscono una variabile necessaria per una comprensione completa del problema.
Le criticità che si riscontrano tra le braccianti straniere sono molteplici: lavorano per la maggior parte più di otto ore al giorno, spesso in più aziende contemporaneamente, con disagi di trasferimento tra un’azienda e l’altra. Solitamente non vengono ingaggiate per svolgere mansioni specifiche e sono inserite in flussi migratori circolari, cioè obbligate a far ritorno nel loro paese di origine a causa della stagionalità del lavoro che svolgono. Spesso non ricevono formazione, sono sotto-occupate e molto più giovani rispetto alle donne immigrate impiegate nei lavori di cura.
Le condizioni abitative in cui vivono, isolate e “segregate” nei pressi dei campi o delle serre in cui lavorano, producono contesti dove abusi fisici e psicologici possono avvenire lontano dagli occhi di tutti, senza possibilità di emersione e denuncia.
Da non dimenticare poi le responsabilità familiari che condizionano inevitabilmente le loro vite: molte donne immigrate sono le breadwinner, cioè le persone su cui grava il peso economico e il sostentamento della famiglia, sia che i familiari siano rimasti nel paese di origine o che vivano con loro in difficili contesti di sovraffollamento e precarietà.
Tutte queste variabili le rendono soggetti estremamente ricattabili, disposti a subire e a non denunciare. Queste criticità, unite alla mancanza di risorse e sostegni esterni e all’assenza di servizi pubblici, creano situazioni in cui la capacità di individuare e intervenire su queste condizioni di sfruttamento viene meno.
La vulnerabilità generalmente sperimentata dai lavoratori stranieri nel settore agricolo assume connotazioni specifiche per le donne, che raramente vengono prese in considerazione dal sistema normativo di tutela contro la violenza di genere e la tratta di esseri umani.
Situazioni di sfruttamento lavorativo delle donne straniere in campo agricolo in Italia sono emerse negli ultimi anni a seguito di indagini condotte da giornaliste/i e scrittori/trici (Antonello Mangano, Stefania Prandi, Marco Omizzolo, Alessandra Sciurba): nei ghetti dove vivono, le lavoratrici rumene, centroafricane, nigeriane, sono costrette a un doppio regime di sfruttamento, come prestatrici di manodopera e come prostitute forzate di caporali e altri braccianti.
Purtroppo in merito alla specificità della vulnerabilità delle donne la letteratura scarseggia e mancano ancora riflessioni appropriate e conseguenti azioni legislative.
I casi di Ragusa e Latina
Tra i casi raccontati è necessario menzionare la situazione delle donne rumene impiegate nelle serre della provincia di Ragusa e delle donne Sikh in provincia di Latina.
Nel ragusano, dove la maggior parte delle persone che lavorano nelle serre sono donne immigrate di origine rumena, qualche anno fa sono emerse situazioni di gravi forme sfruttamento, sia lavorativo che sessuale.
Le testimonianze raccolte durante le indagini dipingono un quadro a dir poco tragico. Queste donne lavorano in un contesto marcato dall’isolamento, dalla segregazione e dalla totale dipendenza dal datore di lavoro: l’area rurale del ragusano è composta da migliaia di piccole aziende agricole, isolate tra loro e situate per la maggior parte in luoghi distanti dai centri abitati. Poiché le braccianti sono costrette a vivere dove sorgono le serre, lo scenario che si crea diventa ideale per la diffusione di dinamiche di sfruttamento, che vanno da quello lavorativo a quello sessuale.
Realtà simili sono state riscontrate anche nella provincia di Latina, dove a lavorare nei campi dell’Agro Pontino è soprattutto la comunità Sikh originaria del Punjab (India). In queste zone sono numerose le situazioni riportate in cui allo sfruttamento lavorativo si sovrappone in maniera sistemica quello sessuale. Le testimonianze raccolte delle braccianti indiane raccontano condizioni disumane, ricatti e violenze sessuali.
La necessità di un approccio intersezionale
Purtroppo queste situazioni difficilmente emergono e difficilmente vengono denunciate.
La mancanza di dati e statistiche ufficiali ed esaustivi, che tengano conto delle criticità aggiunte, determina un vuoto informativo, aggravato dall’estrema problematicità riscontrata nel raccogliere testimonianze, racconti e denunce.
Per prevenire efficacemente queste oppressioni e sfruttamenti è necessario realizzare un reale riconoscimento dei diritti socio-economici alle lavoratrici straniere impiegate in agricoltura. L’estremo isolamento, la mancanza di alternative e dunque la ricattabilità, l’assenza di servizi e politiche di sostegno, la scarsità di canali di immigrazione regolare, l’impossibilità di emergere dal lavoro sommerso, sono tutte cause della vulnerabilità di queste lavoratrici e quindi del loro sfruttamento.
Tale vulnerabilità è alla base delle discriminazioni multiple che devono subire ogni giorno: le braccianti immigrate si trovano a un’intersezione, dove vivono molteplici forme di oppressione e abuso a causa del loro status migratorio, del genere, della nazionalità, della posizione lavorativa, della religione.
Le difficoltà che emergono all’interno di questa categoria di lavoratrici sono totalizzanti e riproducono la segregazione fisica, sociale, psicologica ed esistenziale che vivono le lavoratrici immigrate in generale.
Per questo motivo solo un approccio intersezionale e di genere può aiutare a individuare, comprendere e cercare di scardinare le realtà sopra descritte. I concetti di discriminazione multipla e intersezionalità offrono infatti strumenti analitici, teorici e retorici per interrogare la distribuzione asimmetrica di potere all’interno delle nostre società e forniscono una cornice grazie alla quale si possono mostrare e comprendere le molteplici oppressioni che affliggono determinate persone.