“Immaturo”. Così un ex dirigente dell’Agenzia delle Entrate di Palermo è stato recentemente assolto dall’accusa di molestie nei confronti di due dipendenti. Una sentenza che riflette quanto la nostra cultura sia ancora patriarcale, anche nelle aule giudiziarie: si giustifica chi compie la violenza, minimizzandone le conseguenze e delegittimando chi la subisce. Sì, perché – nonostante il tentativo di sminuire l’accaduto – proprio di violenza si tratta, violenza sul lavoro.
A squarciare il velo su questo tema in Italia è stato il libro “Toglimi le mani di dosso“, edito da Chiare Lettere e scritto da Olga Ricci, pseudonimo dietro cui si cela una giornalista che racconta in prima persona le molestie subite dal direttore di un giornale e l’ambiente di omertà in cui questi abusi venivano accettati e giustificati. Una testimonianza in cui si sono riconosciute le tante donne che hanno trovato un punto di riferimento nel blog Il porco al lavoro, in cui Olga pubblica tutti i racconti che in tante condividono con lei.
Episodi che quando ignorati diventano un abisso di frustrazione quotidiana, che facilmente sfocia nella depressione e nella svalutazione di se stesse e delle proprie capacità. Perché, come spiega Olga nel suo libro, è quasi impossibile reagire quando ci si sente sole e impotenti a causa dell’incapacità delle istituzioni di prendere provvedimenti chiari e stabilire regole dietro cui i molestatori non possono più nascondersi, come è accaduto a Palermo.
E parto proprio da questa sentenza, che ci autorizza a continuare a voltarci dall’altra parte, per parlare con Olga Ricci del suo libro e della violenza sul lavoro in Italia.
Cosa pensi della sentenza di Palermo?
Credo che l’indignazione generale che è passata anche attraverso i commenti sui social network sia una sana reazione di fronte all’evidente ingiustizia della sentenza. Uno dei giudici, Bruno Fasciana, ha motivato la sentenza dicendo che si è trattata “di una pacca nel sedere molto fugace”, in cui “la mano non si è soffermata,” e quindi “incapace di soddisfare le pulsioni libidinose dell’imputato”. E’ incredibile che un giudice non capisca che questa non è altro che violenza sul lavoro. Purtroppo il nostro sistema giudiziario è ancora infestato da un profondo sessismo che riconosce come bonarie e accettabili violenze – in questa definizione, infatti, rientrano le molestie secondo le classificazioni dei Paesi dell’Europa del Nord e degli Stati Uniti – che penalizzano fortemente le donne sul lavoro. E purtroppo sembra che in Italia noi donne non siamo capaci di unirci e scendere in piazza in massa contro le ingiustizie di genere.
Perché è importante inserire le molestie e tutte le altre forme di abuso di genere sul lavoro, che vanno dalla pacca sul sedere allo stupro, nella definizione di violenza sul lavoro?
Credo sia utile ricordare, come risposta, il lavoro di Catharine MacKinnon, avvocata e attivista femminista americana, autrice di un testo fondamentale, Sexual Harassment of Working Women (Molestie sessuali sulle donne lavoratrici), non tradotto in italiano, che ha impostato il quadro giuridico di riferimento negli Stati Uniti, per il riconoscimento delle molestie sessuali sul lavoro come reato. Secondo l’autrice, le molestie sono un sopruso e contribuiscono a mantenere le donne in una posizione subalterna. Non devono essere interpretate come “incidenti” isolati e personali, ma come un problema sociale, che riguarda le donne in quanto donne, cioè appartenenti al genere femminile. Per questo motivo, le molestie vanno considerate addirittura oltre l’abuso, l’umiliazione e l’oppressione di ciascuna vittima: costituiscono una vera e propria discriminazione sessuale, lesiva per tutta la società.
Nel tuo libro concludi parlando di “rimozione collettiva”, anche da parte delle donne che accettano e giustificano certe molestie. Perché secondo te c’è questa negazione della realtà? Per paura, per comodità o perché siamo immerse fino al collo nella cultura patriarcale che ci fa accettare come normale qualcosa che non dovrebbe esserlo?
Siamo immerse fino al collo nella cultura maschilista e non “vediamo” la realtà per quello che è. Sembra difficile da capire se non si è ancora fatto il salto di visione. Anche a me è successo così. Non c’è stata una presa di coscienza immediata. La consapevolezza piena rispetto alla situazione è arrivata dopo, quando tutto è finito, quando mi sono messa a studiare. All’inizio pensavo che quelli del mio capo fossero comportamenti normali, lo faceva con me, lo faceva con altre donne. Le frasi all’inizio non erano mai esplicitamente sessuali, il suo approccio non era dichiaratamente molesto, mi toccava sulle spalle e mi prendeva a braccetto, con una confidenza che faceva passare per normale. Si dimostrava interessato alle mie competenze, ma allo stesso tempo mi parlava di sé, voleva sapere della mia vita privata, cercava di creare un legame che andasse oltre quello lavorativo. Mi ha fatta passare da un piano personale a uno privato in pochi giorni. A quel punto si è sentito autorizzato a comportarsi come meglio credeva, fino ad arrivare al ricatto vero e proprio.
La parola violenza per quello che è successo è arrivata molto dopo. E mi rendo conto che ancora molte, troppe, donne non la usano perché non sanno chiamarla così. Ricevo messaggi da parte di donne che mi dicono che dopo avere letto il libro finalmente riescono a dare un nome al malessere che hanno provato o che provano di fronte agli atteggiamenti che ho descritto sopra. Perché un capo che ti invita a cena, che ti parla di sé, dei suoi problemi, di quanto sei bella e attraente, che ti bacia, abbraccia, che ti mette le mani sui fianchi è un capo che esercita una coercizione, un abuso di potere, una violenza.
Quando si subiscono molestie considerate erroneamente “minori” molte donne sostengono di “non voler fare la vittima”. Secondo te la difficoltà di denunciare e non riconoscere la violenza dipende anche da un’idea di emancipazione distorta che si è portata avanti negli ultimi decenni, secondo cui una donna per essere vincente deve sempre dimostrarsi forte e autonoma?
Per anni mi è stato detto di non fare la vittima, mentre subivo le molestie e poi dopo, quando le raccontavo. Le donne, soprattutto, me lo dicevano, perfino alcune che si dichiaravano femministe. C’è una certa cultura dell’emancipazione che prevede che se sei forte e brava certe cose non ti succedono. Francamente, io fatico a capire questo discorso. Prima di tutto perché non tutte siamo sempre forti e brave. Ci sono un sacco di uomini deboli, ai quali comunque certe cose non succedono. Vogliamo capire che è un problema di genere, che non c’entra solo con la nostra forza o debolezza?
In secondo luogo, capisco che è necessario che la donna che subisce diventi soggetto attivo, però non è così semplice. Dicendo a qualcuna di non fare la vittima la si colpevolizza ulteriormente e non la si aiuta. La colpa è sempre di chi commette la violenza e mai di chi la subisce. Altrimenti davvero è come dire che si viene stuprate perché si mette la minigonna. Infine, bisogna considerare che il meccanismo delle violenze sul lavoro, e della violenza in generale, è complesso, include diversi livelli (personale, sociale, emotivo, economico) che non si possono risolvere con una pacca sulle spalle che dovrebbe spronare all’empowerment. Questo non significa affatto che si debba subire in silenzio, anzi: bisogna reagire! Ma ci vuole strategia, e prima ancora consapevolezza. Ci vuole una narrazione collettiva del fenomeno, dalla quale deve iniziare una discussione che permetta di avere diverse prospettive.
Credi che i modelli attuali di racconto della violenza funzionino? O l’attuale narrazione di violenza sulle donne rafforzi quest’immagine negativa di “vittima” (mostrando donne rannicchiate, occhi neri e simili)?
I modelli attuali di racconto della violenza spesso non funzionano. Molti sono moti di indignazione collettiva che si esauriscono passato il momento dell’indignazione. Altri poggiano su atteggiamenti demagogici, che prescindono dall’analisi di dati, cause e conseguenze. Prescindono dal fatto che per molti tipi di violenza non esistono risarcimenti reali, perché la vita, in seguito alla violenza, viene stravolta per sempre. Nessuno ci ridà indietro quello che siamo state e quello che abbiamo perso. Semmai ci vuole giustizia, ma allora bisogna interrogarsi su che cosa significa la parola giustizia, per noi. Altri ancora rischiano di esaltare il crimine, anche inconsapevole, come ad esempio accade con le foto di donne rannicchiate e pestate. Queste immagini spesso sembrano essere in totale contrasto con il messaggio che si vuole fare passare.
Il tuo blog è diventato un punto di riferimento sul tema delle molestie sul lavoro. Cos’è che ti ha colpito di più delle storie che ti hanno raccontato e che ti raccontano?
Ci sono storie diverse, tutte molto dolorose. Mi ha colpito che per molte donne scrivermi sia stato un modo per mettere insieme, per la prima volta nella loro vita, tutta la storia delle molestie e delle violenze sul lavoro. Ce ne sono altre che non ne hanno mai parlato a nessuno. Due donne, che mi hanno scritto di recente, chiedendomi di non pubblicare le loro storie, mi hanno detto di avere ceduto alle promesse dello scambio sessuo-economico: sono andate a letto col capo. Questo ha creato loro non poche difficoltà perché le ha rese ancora più ricattabili, considerando anche che entrambe hanno un partner.
Rispetto allo “starci”, io credo che la narrazione che viene fatta è sbagliata, con una divisione tra donne “per bene” e donne “per male” che io non trovo sensata. Probabilmente qualcuna che ci sta riesce ad avere benefici, ma diversi studi dimostrano che la maggior parte delle donne che ha un rapporto o un coinvolgimento sessuale sul lavoro, sul lungo periodo, viene licenziata oppure si trova costretta a lasciare. I motivi sono diversi: la cattiva reputazione; le ritorsioni dei colleghi; il comportamento ricattatorio dei capi – padroni che restano sempre e comunque i soli a decidere. E rispetto a quelle che hanno benefici: è davvero questa la grande chance che vogliamo credere di avere? Non ci sono davvero altri modi per lavorare per bene e guadagnare?
C’è bisogno di un blog come il tuo perché non esistono altri strumenti in cui le donne si sentano ascoltate, capite, “al sicuro”? Cosa potrebbero fare concretamente sindacati e avvocati?
Una ragazza che fa la cameriera mi ha scritto che si è sentita sola per i tre anni delle molestie e che l’unica forza le veniva da leggere il mio blog. Questo è sconcertante. Vuol dire che oltre al blog non ci sono luoghi di analisi o racconto facilmente raggiungibili? Vuol dire che i linguaggi usati dalle istituzioni che si occupano del problema e i materiali prodotti non sono efficaci?
Sul fare in concreto: spero che presto ci saranno suggerimenti da chi è competente in materia, e cioè da avvocate, giudici e sindacalisti.
Uno dei problemi rappresentati dalle leggi e dal sistema culturale che abbiamo, è che stragrande maggioranza di chi subisce molestie non denuncia. Non ci sono nemmeno dati aggiornati, sul fenomeno. Quelli più recenti, dell’Istat, sono stati raccolti nel 2008. E danno un quadro sconfortante: 1 milione e 300mila italiane hanno subito molestie sul lavoro. E il 91% degli stupri o tentati stupri e il 99,3% dei ricatti sessuali non vengono segnalati. I motivi più ricorrenti? Vergogna, imbarazzo, paura di non essere creduta e spesso la mancanza di prove. Inoltre la precarietà rende tutto più difficile: se non hai diritti riconosciuti che passano, ad esempio, dalle garanzie contrattuali, sei alla mercé di chi ti sta dando il lavoro.