Essere donna e persona con disabilità comporta l’esposizione ad una doppia discriminazione, in quanto disabile e in quanto donna, e il rischio di essere soggette a violenze è addirittura doppio rispetto alle donne normodotate.
Lo dicono dati ISTAT del 2014 affermando che «ha subìto violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il 4,7% delle donne normodotate)».
Dati che lasciano intuire la portata di un fenomeno finora nascosto o misconosciuto a causa, forse, dell’errata convinzione che le persone con disabilità siano soggetti asessuati e quindi non ricadenti in alcun genere specifico.
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Donne disabili, doppia violenza
La doppia discriminazione delle donne disabili emerge invece come dato oggettivo, riconosciuto anche dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità che all’art. 16 impegna gli Stati a contrastare ogni forma di sfruttamento, violenza e maltrattamenti nei confronti delle persone con disabilità tenendo conto dell’età, del genere e del tipo di disabilità.
Il tema della violenza sulle donne con disabilità, dunque, deve fare i conti con la presa d’atto della appartenenza ad un genere sessuale, prima di ogni altra cosa.
Già di per sé essere spersonalizzate e prive di una identità sessuale è una forma di violenza assodata e considerata normale nella nostra cultura. Quando poi l’appartenenza al genere si accompagna a violenze psicologiche o fisiche, si ha spesso difficoltà a credere alle donne disabili, soprattutto quando ad agire la violenza sono familiari o coloro che se ne prendono cura, oppure a causa dei vari tipi di disabilità che rendono difficile la comprensione delle testimonianze.
Le persone con disabilità vengono spesso cresciute ed educate alla sottomissione, all’adattamento a qualsiasi circostanza e questo, accompagnato da una scarsa educazione alla corporeità e l’affettività, può generare situazioni di abusi difficilmente riconoscibili e riferibili.
Basta fermarsi a guardare il cortometraggio “Silenzi Interrotti”, di Ari Takahashi che racconta storie di violenze e abusi su donne con disabilità, prodotto da FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e Differenza Donna, per capire – attraverso le testimonianze raccolte – come occorra lavorare moltissimo sull’educazione alla sessualità delle persone con disabilità, dei loro familiari e di coloro che se ne prendono cura.
Occorre inoltre formare e sensibilizzare operatori e operatrici delle strutture di accoglienza, dei pronto soccorso, delle questure e in generale di tutti coloro che si possono trovare a contatto con una donna disabile che abbia subìto violenza, per poterne raccoglierne la testimonianza, verificarne il racconto e soprattutto porre in essere le misure di tutela più adeguate.
Disabili: Italia bacchettata dall’Onu
L’Italia invece è ancora molto indietro nella tutela delle donne con disabilità e ne è prova il richiamo subito nel 2016 da parte del Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità che afferma: “non vi è alcuna sistematica integrazione delle donne e delle ragazze con disabilità nelle iniziative per la parità di genere, così come in quelle riguardanti la condizione di disabilità”.
Riguardo la violenza l’invito è a “porre in atto una normativa, compresi gli strumenti di monitoraggio, per individuare, prevenire e combattere la violenza contro le persone con disabilità sia all’interno, sia all’esterno dell’ambiente domestico, in particolar modo quella contro le donne e i minori con disabilità, nonché di produrre un piano di azione per l’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica – Convenzione di Istanbul – che riguarda specificamente le donne e le ragazze con disabilità”.
Violenza sulle donne disabili: i dati
Quando poi finalmente ci si accorge delle donne con disabilità e si ascoltano le loro storie in tema di violenza, il fenomeno emerge in tutta la sua portata, come testimonia l’indagine lanciata alcuni mesi fa dalla FISH e l’Associazione Differenza Donna con il progetto VERA (acronimo per Violence Emergence, Recognition and Awareness).
Il questionario diffuso online e compilabile in modo anonimo sta restituendo un quadro davvero preoccupante perché i primi dati diffusi, su 476 moduli compilati, parlano di 153 donne disabili (il 32,1%) che hanno subìto genericamente “una qualche forma di violenza” da parte di un familiare, un operatore, uno sconosciuto o chi in qualche forma se ne prende cura. Dati che aumentano notevolmente se si parla in modo specifico di “isolamento, segregazione, violenza fisica e psicologica, molestie sessuali, stupro, privazione del denaro”, perché in questo caso sono 314 donne su 476 a dichiarare di esserne o esserne state vittima, pari al 66% del totale.
Violenza agita nell’80% dei casi da una persona nota, in particolare partner attuali o passati, familiari (nel 50% dei casi), o magari conoscenti (22%) o genericamente coloro che se ne prendono cura, come operatori socio sanitari, assistenti o badanti, fisioterapisti o educatori (7,5%).
E’ notevole anche la percentuale di sconosciuti che usano violenza contro queste donne (20,9%), approfittando della loro debolezza o incapacità di difesa. Ed è proprio la percentuale delle donne che hanno risposto di essersi difese di fronte alla violenza subìta (34,4%) a far capire come sia difficile prendere atto di ciò che si sta vivendo e poi sviluppare la forza per difendersi, spezzando il legame violento e mettendo in atto meccanismi di reazione e ricorso al supporto esterno.
Tutti questi dati sono stati illustrati nel corso dell’incontro “Donne con disabilità, violenze e abusi: basta silenzi!”, svoltosi lo scorso 11 dicembre a Roma presso il Senato della Repubblica, durante il quale sono stati presi impegni precisi di azione e collaborazione, tra cui l’impegno a ricostituire a Palazzo Madama la “Commissione di inchiesta su femminicidio e violenze di genere” che dovrà necessariamente includere nei temi da analizzare la significativa variabile della disabilità.
La strada da fare, dunque, è ancora lunga per il riconoscimento della condizione delle donne con disabilità, le questioni da affrontare molteplici ma il punto di partenza non può che essere uno: un approccio intersezionale in cui la prospettiva di genere sia integrata nelle politiche per la disabilità e la condizione di disabilità integrata nelle politiche di genere, entrambe in stretta consultazione con le donne e le ragazze con disabilità e le loro organizzazioni rappresentative. Per fare questo occorre un’alleanza tra donne per portare avanti unite i nostri temi.