No significa no.
Un concetto all’apparenza scontato, di immediata comprensione. Ma quando si parla di violenza sessuale il significato del consenso si rivela molto meno semplice e banale di quanto sembri, in ogni parte del mondo.
Per capire quanto sia ancora problematico ripercorriamo due degli episodi di violenza contro le donne più discussi durante quest’anno.
Dire no in Germania non basta più
Partiamo dal dibattito che si è scatenato in Germania. Il 2016 è iniziato con le violenze sessuali nel corso dei festeggiamenti di capodanno di Colonia. Come dimenticare le polemiche e le strumentalizzazioni che ne sono seguite?
Per gettare acqua sul fuoco, nei mesi successivi il parlamento tedesco ha approvato una legge che mette completamente in discussione il concetto stesso di consenso.
Secondo il testo, infatti, non basterà il no della vittima per qualificare l’aggressione come stupro e fare condannare l’autore della violenza, ma sarà necessario valutare le altre circostanze dell’accaduto, come l’aver opposto fisicamente resistenza. Requisiti che si tradurranno in maggiori possibilità di assoluzione per il colpevole.
L’idea che questa legge esprime è la mancanza di valore della volontà di chi subisce violenza, oltre alla colpevolizzazione della vittima, una pratica purtroppo ancora troppo diffusa.
“Nein heisst Nein” (no significa no) è proprio lo slogan che le femministe tedesche hanno scelto per portare l’attenzione pubblica su questa nuova, pericolosa legge. Le associazioni Terre des Femmes e UN women si sono mobilitate con campagne pubbliche, indirizzando anche una lettera aperta alla cancelliera Merkel, ricordandole anche che la Germania non ha ancora ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza di genere e la violenza domestica.
Pur essendo uno dei paesi europei che maggiormente si impegna a eliminare le discriminazioni di genere sul lavoro e a garantire un’ottima tutela della maternità, la Germania, infatti, è ancora molto indietro sulla tutela contro la violenza, specialmente quella domestica.
La campagna #neinheisstnein chiede una riforma del diritto sessuale penale e sottolinea il concetto fondamentale “Mein Korper, Meine Entscheidung“: il mio corpo, la mia decisione.
Come affermato più volte dalla presidente del comitato UN Women, Karin Nordmeyer: “Un no chiaramente espresso deve bastare a condannare il colpevole”, non deve essere necessario per la vittima di un’aggressione la resistenza fisica, ma la semplice espressione della sua volontà di autodeterminazione fisica, peraltro un diritto già riconosciuto e tutelato dalla legge e dalle carte europee.
Il parlamento tedesco, con questa legge, ha accontentato chi dopo i fatti di Colonia chiedeva un inasprimento delle norme. Tuttavia è opportuno ricordare che quegli avvenimenti sono stato strumentalizzati principalmente per fomentare un’avversione nei confronti degli stranieri, piuttosto che per cominciare una discussione sul significato del consenso e del rispetto della sessualità altrui.
All’indomani di quelle violenze, il mondo femminista si è profondamente diviso, anche in Italia, e molte hanno professato “un’incompatibilità culturale” fra i paesi di matrice musulmana e quelli di matrice cristiana.
Questo nonostante le indagini abbiano ampiamente provato che il 60% delle aggressioni fossero a scopo di furto, e che solo 3 sui 58 imputati coinvolti fossero profughi, come dichiarato dal procuratore della città Ulrich Bremer.
Eppure la vicenda è stata ampiamente sottoposta ad analisi sociologiche e culturali e a una mediatizzazione fortissima, volte al rafforzamento della retorica “noi contro loro”. Una retorica molto pericolosa in tutta Europa, ma specialmente in una Germania che vive quotidianamente la spaccatura della società civile sul tema dell’accoglienza a rifugiati e migranti.
I corpi delle donne, insomma, sono stati ancora una volta non sono uno strumento di autoderminazione, ma di mera propaganda politica (peraltro ripetendo lo stesso schema francese propagandato da Marine Le Pen).
Lo dimostra la legge anti-stupro che ne è conseguita, formulata in modo da penalizzare la vittima dell’aggressione: l’unico obiettivo della “macchina” che si è mossa nel post Colonia è stato quello di polarizzare l’opinione pubblica verso una chiusura mentale nei confronti di una categoria di persone che viene usata come caprio espiatorio.
Intanto si chiudono gli occhi sulla violenza domestica e sulle radici culturali che alimentano e scatenano la violenza contro le donne, preferendo intervenire su ciò che avviene a posteriori, a stupro avvenuto, invece che investire a lungo termine sulla prevenzione.
Se non c’è un sì non c’è consenso
La Germania purtroppo non è l’unico stato occidentale che si è trovato a dover ripensare le sue politiche in fatto di violenza di genere e a inciampare sul concetto di consenso.
Negli Stati Uniti i casi di aggressioni sessuali nei campus delle università continuano a essere fatti di cronaca quasi quotidiana. Il fenomeno è così diffuso e sentito che è stato denunciato più volte pubblicamente da star, come Lady Gaga, ed è anche stato al centro della campagna di Hillary Clinton, la quale si è più volte schierata per la necessità di una forte legislazione per contrastarlo.
Il caso più discusso di quest’anno è avvenuto nell’università di Stanford: il ventenne Brock Allen Turner, atleta e di famiglia benestante, ha stuprato dopo una festa una giovane completamente ubriaca e incosciente.
Durante il processo, però, il violentatore ha affermato più volte in tribunale che il rapporto era stato consensuale, confermando la prassi comune di fare leva sullo stato confusionale dovuto all’assunzione di droghe o alcol da parte della vittima per giustificare molestie o violenze sessuali.
Dovrebbe essere chiaro, invece, che l’incapacità di acconsentire in modo lucido a un rapporto sessuale comporta l’assenza di consenso e chi approfitta di una persona che non è in grado di prendere decisioni sta compiendo una violenza.
Purtroppo il giudice non ha trovato il fatto abbastanza grave da punire severamente Turner, che è stato condannato a soli sei mesi, perché una una pena più lunga avrebbe potuto avere “un forte impatto” su un ragazzo così giovane. Ignorato, invece, “il forte impatto” che lo stupro ha avuto sulla vittima.
A scatenare le polemiche non è stata solo la sentenza, ma anche la narrazione fornita dai media, che hanno continuato a ritrarre il colpevole come il classico “bravo ragazzo”, e la lettera scritta dal padre, che lo giustificava parlando di “solo 20 minuti” di violenza.
E in Italia?
La situazione italiana la conosciamo bene: dai femminicidi agli stupri, più volte viene posto l’accento sulla “colpevolezza” della vittima, su dettagli come la lunghezza della sua gonna o la sua assenza nella vita familiare, cercando di ricondurre il tutto a uno steretipo comune. Uno stereotipo che sembra assicurare salvezza, se solo a esso ci conformassimo.
Quante volte ci viene proposto di essere meno attraenti, meno sicure di noi stesse, come se queste fossero le ricette magiche per evitare la violenza di genere?
Del concetto di consenso, quando si parla di violenze sessuali, si parla poco o niente. Anche se la nostra giurisprudenza si è espressa più volte in merito e pochi anni fa ha anche confermato che un sì iniziale ad un rapporto, se poi viene a mancare, non può in alcun modo giustificare lo stupro.
Il consenso prima di tutto
Lo stupro è una logica di potere, di sopraffazione e umiliazione che non ha nulla a che vedere con la vittima o la sessualità.
Lo dimostra anche una recente ricerca dagli esiti preoccupanti: su 150 uomini coinvolti, un terzo ha ammesso che violenterebbe una donna se fosse certo di non essere denunciato.
Il famoso comico americano Louis C.K, in uno dei suoi monologhi, aveva dichiarato:
La prima causa di morte per gli uomini sono gli attacchi di cuore. La prima causa di morte per le donne sono gli uomini.
Una riflessione di certo provocatoria, ma contenente una verità di fondo che continua ogni giorno a manifestarsi, in maniera più subdola o più violenta, e contro la quale spetta a noi combattere, rivendicando il rispetto e la parità che meritiamo.
Ma non perché siamo donne bisognose di protezione. Perché siamo esseri umani.