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Sei “veramente” trans? Lettera aperta a chi pensa di poterlo stabilire

Al testo originario di questo articolo sono state apportate alcune piccole modifiche in seguito a una richiesta di rettifica da parte del Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia. Il fulcro e il senso dell’articolo rimangono comunque immutati, così come il sostegno della redazione al lavoro di Storm, che ha firmato questo pezzo

Immagine di CistemFighter

Finalmente si inizia a parlare in Italia del “confine trans”, sollevando l’argomento truscum o transmedicalista.

Le persone definite truscumtransmedicaliste credono che essere trans sia una condizione medica e che sia necessario provare disforia e sottoporsi ad un processo di transizione per definirsi “davvero” trans.

Ho scritto “finalmente” perché ho sempre percepito una tensione tangibile tra le persone trans che hanno compiuto o stanno compiendo una transizione e quelle che invece non hanno ancora intrapreso alcun percorso o l’hanno intrapreso e lasciato o, ancora, non intendono intraprenderlo ma si dicono comunque trans, specie se dicono anche di non provare disforia di genere o di non sentire il bisogno di ormoni.

Transizione e disforia in Italia

La transizione tramite servizio sanitario in Italia consiste in un periodo di circa 4 anni che culmina con il cambio anagrafico dei documenti (tranne l’atto di nascita). L’accesso agli ormoni dipende dal parere positivo di almeno uno (ma nella maggior parte dei centri due) professionisti di salute mentale (psichiatra e psicolog*) il cui lavoro consiste nell’accertare che non ci siano impedimenti di salute mentale che alterino la percezione della realtà.

Contemporaneamente alla somministrazione di ormoni si attiva un “test di vita reale” (real life test) ovvero un periodo in cui si sperimenta la vita nel genere in cui ci si identifica senza avere documenti congruenti con lo stesso (con tutte le difficoltà che questo comporta). Infine, una o due sentenze autorizzano le eventuali chirurgie di riassegnazione prima e la modifica anagrafica poi.

La mia esperienza di persona trans

Una persona è trans se non si identifica con il sesso/genere assegnato alla nascita. Per me capire di essere trans è stato un processo lunghissimo.
Mi comportavo in modi che con il senno di poi sono interpretabili come trans, ma poiché essere trans nel mio ambiente veniva pensato come impossibile/indesiderabile/prevenibile e poiché il sesso viene interpretato come determinante dell’identità di genere,  per tutta la vita le persone che mi gravitavano intorno hanno interpretato i miei comportamenti in qualunque modo alternativo a trans esistesse. Semplicemente perché trans per loro non rientrava nel campo dell’immaginabile o del desiderabile.
E non ho potuto che assorbire questa percezione distorta e negativa dell’essere trans buttando via 30 anni della mia vita a negare chi sono per compiacere e rispecchiare chi mi pensava impossibile/indesiderabile.

Non si può essere quello che non si immagina di poter essere.

Solo nel 2014 all’età di 41 anni ho capito di essere trans, dopo che ho preso coscienza che non sentirmi donna senza necessariamente sentirmi uomo era possibile e che circa un terzo delle persone trans si sente così. Dopo che ho trovato (all’estero) un termine per definire questa identità di genere: non-binary.

Attraverso ricerche di archivio ho poi scoperto che le istanze non-binary, sebbene sembrino relativamente nuove, si ricollegano alle istanze di persone che si definivano transgenderists o neutered e che dagli anni ’60 animano il dibattito sui “confini” collegati al definirsi trans.

Mentre in un primo periodo ho avuto difficoltà a ritenere la parola disforia riferibile a me, oggi non ho problemi ad usarla ma continuo a non sentire il bisogno di sottopormi a terapia ormonale.

Mi ci sottoporrò per forza di cose perché la procedura non prevede un servizio basato sui bisogni della persona. È capitato abbastanza spesso che quando espongo la mia prospettiva sugli ormoni, mi venga detto che in realtà ho paura. A me sembra improbabile ma non posso escluderlo al 100%.

Colpisce però che ogni volta che esprimo questa cosa, qualcun* si affretti a zittirmi riportando il tutto al copione standard transessuale. Chissà quali ansie apocalittiche si nascondano dietro questo bisogno della narrativa unica.

Le polemiche sul “confine trans”

Di “confine trans” si è parlato quest’estate in un documento del Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia.

Da un lato del confine c’è quello che loro definiscono “vissuto trasparente”, senza considerare quanto questo vissuto dipenda dal passing (ovvero dal mostrare e sembrare quello che si dice di essere) e dalla sicurezza socio-economica e familiare (senza contare che la credibilità che si ha quando ci si dice trans a sua volta dipenda anche dall’accesso ad ormoni, chirurgia, documenti congruenti).

Dall’altro lato c’è l’autodeterminazione di chi sa di essere trans anche prima di venire diagnosticat* e prima di venire credut* e validat* da chi l* circonda nella vita quotidiana.

La realtà per la maggioranza delle persone trans non è così netta e binaria e l’una non esclude del tutto e necessariamente l’altra.

Nel mio caso, ad esempio, pur avendo fatto il coming out da ben quattro anni, c’è ancora chi nonostante le mie insistenti richieste, continua a chiamarmi con il deadname (il nome assegnato alla nascita) e a parlarmi solo al femminile nel quotidiano. Ma ci sono da sempre anche persone trans che negano di aver compiuto la transizione perché “passano” e sperano così di evitare lo stigma sociale.

Eppure il Coordinamento lombardo si pone come obiettivo quello di stabilire chi possa o meno prendere parola (in quali contesti non è chiaro) dicendosi trans.

“Crediamo – si legge nel documento – che seppur nessuno deve essere ‘silenziato’, parimenti neppure chiunque possa sentirsi in diritto di parlare a nome di una comunità che ha delle istanze specifiche”.

E aggiungono: “Capita che persone ‘famose’ come transgender dall’altro ieri e solo in una dimensione ‘web based’, si sentano in diritto di accusare di transfobia chiunque non rispetti qualsiasi innovativa ricostruzione sull’espressione di genere, dimenticando che l’espressione di genere, là fuori nel mondo, non è quel meraviglioso caleidoscopio che con tante belle parole infilate l’una dietro l’altra piace rappresentare”.

Inutile dire che questo documento ha provocato scalpore e che, oltre ad aver ricevuto consensi, in tant* si siano riversat* sulla loro pagina per muovere critiche. Tante delle critiche che sono state mosse loro non hanno però preso nella giusta considerazione le domande che sollevano.

E finché non ci confrontiamo con quelle domande, chi si considera parte lesa (coloro che si considerano “vere” persone trans) continuerà a ritenersi deprivat* di voce e continuerà a dipingere come pericolose persone che potrebbero invece essere innocue, utili o vulnerabili, rendendo loro impossibile identificarsi con una “comunità trans” che le esclude.

Quindi, vediamole queste domande:

Chi può dirsi legittimamente trans?
Cosa rende trans?
Cosa definisce l’identità trans?
È l’esperienza di disforia?
È l’esperienza di transfobia?
È la sofferenza del percorso?
È aver portato a termine il “test di vita reale”?
È l’essersi operat*?
È il dichiarsi tale?
È il sottoporsi allo scrutinio e alle gerarchie di associazioni e gruppi trans radicati sul territorio prima di potersi esprimere?

Le conseguenze del “confine trans”

L’articolo che ho tradotto di seguito (di Sam Dylan Finch, scrittore e attivo sostenitore della comunità Lgbt+, di cui parla spesso in combinazione con temi di salute mentale) più che alle domande risponde alle conseguenze di rispondere in un modo o nell’altro.

Perché sappiamo bene che trovarci tutt* d’accordo è impossibile. Ma sappiamo anche che mettere un confine (ammesso che sia possibile) ha conseguenze per entrambi i lati.

Il grande pregio dell’articolo è quello di avere un punto di vista bilanciato e di considerare le difficoltà da entrambe le parti senza sminuire necessariamente come incapacità di intendere e di volere chi sostiene di non provare disforia o di non sentire l’esigenza degli ormoni, né tacciare come mostro chi trova attraente la solidità di un confine magari dopo un periodo logorante come quello di transizione in cui è stato costantemente mess* sotto scrutinio o chi, come nel caso del Coordinamento lombardo, ritiene che sia più efficace a livello politico portare avanti solo alcune istanze specifiche.

Secondo me viene poco considerato quanto il logorio del doversi mettere continuamente in discussione e doversi giustificare e difendere e spiegare e dimostrare di avere effettivamente necessità e di essere meritevole di transizionare, di ricevere servizi e assistenza di fronte a chiunque lo richieda, possa contribuire a costituire la legittimità dell’identità transessuale.

E come, di conseguenza, chi non ha subito questo logorio (o non ancora a sufficienza) non venga ritenut* legittim*.

L’articolo mi ha aperto un mondo perché ho compreso meglio sia le ragioni di chi ha già compiuto il percorso che il punto di vista dei professionisti e allo stesso tempo mi ci sono rivist* almeno in parte.

Spero che troviate la traduzione altrettanto illuminante e utile.

Se volete leggere l’articolo in lingua originale lo trovate qui.

Screenshot dal blog di Sam Dylan Finch

“Questo è quello che vorrei che le persone che si identificano come truscum capissero”

di Sam Dylan Finch

Questa è una lettera aperta ai transmedicalisti.

Questa volta sono diretto, perché non voglio parlare di voi come se foste un Altr* lontano e distante. Non penso che aiuti. Siete persone vere, e non importa se le opinioni divergono, non voglio tralasciare la vostra umanità.

Ho parlato in passato dei problemi che ho avuto con persone trans che si identificavano come “truscum” anni fa (trascum significa persone transgender che credono che la disforia di genere e la transizione medica siano necessarie per identificarsi come trans – altrimenti note come transmedicalisti).

Recentemente, mi sono sfogato su Twitter a proposito di questi episodi. E non mi ha sorpreso che la mia uscita non vi abbia reso felicissimi.

Le vostre risposte mi hanno fatto mettere in discussione se avrei potuto affrontare l’argomento diversamente. Perché sarò onesto, non so se mi è mai venuto in mente prima di parlarvi direttamente.

Non ho intenzione di fingere di non essere arrabbiato o ferito. Ma non vi odio, come qualcuno di voi ha suggerito. Vorrei seriamente che smetteste di ferire altre persone trans.

Basandomi sulle vostre risposte, però, mi chiedo se vi rendete conto che state ferendo qualcuno. Penso che ci siano in ballo anche le vostre ferite, e che questo non renda questa conversazione facile per nessuno.

Per cui farò un respiro profondo e mi appresterò a fare quello che avrei dovuto fare all’inizio – esaminare con attenzione esattamente gli argomenti che mi mettono in difficoltà. Spiegherò meglio che posso perché questa cosa del “truscum” mi turba come persona trans.

E voglio darvi il beneficio del dubbio, perché anche se non mi vedete come parte della vostra comunità continuo a credere che voi siate parte della mia.

Da ottimista inguaribile quale sono, mi piace pensare che un giorno le persone trans potrebbero unirsi intorno ad un falò cantando “Landslide” dei Fleetwood Mac (giuro che questa canzone è un inno transgender – solo una mia opinione personale, non correlata).
Ma sarei lieto se fossimo più carin* l’un* con l’altr*.

Questo è il post più lungo che abbia mai scritto (mi scuso in anticipo). Se vi state chiedendo se sia genuino o meno sento di rassicurarvi: non spenderei tanta energia se non mi interessasse a livello profondo.

Se state alzando gli occhi al cielo perché è troppo lungo, potete leggerlo in più volte. Sarà ancora qui. E lo sto intermezzando con dei titoli in maiuscolo perché spero sia facile ritrovare il punto in cui l’avete lasciato.

Innanzi tutto: perché mi rivolgo a voi? È una domanda sensata.

Per capire perché avrete bisogno di comprendere la mia storia.

La prima cosa da sapere è che lavoro con i media digitali. È importante anticipare questo, perché è il mio lavoro pubblico come scrittore transgender che ha attirato l’attenzione dei transmedicalisti in primo luogo.

Nel 2015, ho iniziato a ricevere e-mail e tweet da persone che si identificavano come “truscum” per un post che ho scritto su quanto odiassi la parola “transtrender” (NdR: una persona cis che finge di essere trans perché lo considera di “moda”).

Non credevo che la mia posizione fosse particolarmente controversa, ma mi ha attirato molta attenzione come persona trans e ha portato ad attacchi mirati, che sono continuati durante la mia carriera.

Il fatto che non avessi ancora fatto la transizione medica ha portato queste persone a fare domande intrusive sul mio corpo. Si sono intromesse in conversazioni non correlate sui social media per dipingermi come un impostore, hanno contattato i miei seguaci con teorie complottistiche sulla mia transizione (a quanto pare mi ero inventato tutto), e hanno cercato di screditare il mio lavoro.

E, naturalmente, mi hanno chiamato con desinenze/articoli con i quali non mi identifico. Tanto per aggiungere un po ‘di sale alla ferita, immagino.

La realtà è che in quel momento non avevo mai detto di non voler fare una transizione medica. Semplicemente non potevo.

Inizialmente, nel 2014, avevo avuto problemi con la mia assicurazione perché mi ero trasferito. Dopodiché, è stato il mio stato di salute mentale che ha portato i medici a negarmi l’accesso alle cure correlate alla transizione (se sei curioso di sapere come questo incubo accade, ho intervistato altre persone trans con esperienze simili, e ne ho scritto qui).

Così mentre accadeva questa campagna persecutoria a livello pubblico, nel privato stavo lottando contro la disforia e con l’impotenza di non poterci fare niente. La speranza era che le altre persone trans considerassero la situazione di mancanza di accesso come un campanello di allarme per chiedere accesso migliore alle cure. Ma non è stato così.
Al contrario, i transmedicalisti mi hanno detto che la mia mancanza di interventi medici rendeva la mia identità non credibile, non valida.

In una parola? E ‘stato traumatico Mi sentivo tradito dalla mia stessa comunità. Pensavo che se qualcuno avesse mai potuto capire le mie difficoltà, sarebbero state altre persone trans.

La persecuzione non si è fermata nemmeno quando finalmente ho avuto accesso agli ormoni. I transmedicalisti avevano deciso che stavo mentendo anche su questo. Quando ho pubblicato una foto di me con il gel del testosterone, hanno sostenuto che non fosse mia la ricetta e poi hanno comunque deciso che, dal momento che non avevo avuto un intervento chirurgico, non potevo comunque venire creduto.

Non aveva importanza che per tutto il tempo stessi cercando disperatamente di accedere alle cure.

Queste sono state le mie prime esperienze con “truscum”.

Sarò onesto, mai mi sarei sognato di pensare di subire una persecuzione da altre persone transgender.

E non è capitato solo a me. L’ho visto succedere molte volte anche ad altre persone, compres* ad alcun* attivist* che rispetto profondamente e a giovan* trans che solo di recente hanno fatto coming out.

Sarò diretto: non mi avete fatto esattamente una prima impressione favorevole.
E lo so, lo so. Potreste pensare: “Ma non si trattava di me! Io non ti ho perseguitato! Cosa c’entra con me?”. Capisco perché la generalizzazione possa infastidire.

Ma quando sostenete che si possa determinare chi è o non è transgender, alcune persone useranno questa prospettiva per giustificare comportamenti aberranti. Sostenere attivamente o passivamente questo equivale a sdoganare la “polizia del genere”.
Incoraggia a stabilire chi è o non è “abbastanza trans”. E questo significa ferire e far star male le persone.

Questo è il punto cruciale per me. Indipendentemente dalle vostre intenzioni, le persone ne soffriranno.

Non ho ancora trovato persone che si identificano come trasmedicaliste che riconoscano che questo fenomeno sta accadendo e che le preoccupazioni in merito sono valide.  Se sei ancora qui con me – e se lo sei, lo apprezzo – voglio spiegarti esattamente perché il transmedicalismo come concetto è così preoccupante, con la speranza che tu possa capire meglio i danni che fa.

Non perché voglio darvi lezioni o penso che siate incapaci di cercarlo su Google. È solo che riconosco che c’è la possibilità che le persone non si siano prese il tempo di riflettere o processare quello che implica, e che invece sia più immediato reagire in modi disumanizzanti.
Per cui stabiliamo il mio punto di partenza (o i miei bias, o quello che sono): è vero che non credo che la presenza di disforia sia necessaria per identificarsi come transgender.

Capisco che questo tipo di inizio, può toccare alcuni nervi scoperti per qualcun*. Ma voglio spiegare perché penso che sia un punto di partenza importante, a prescindere da come possa far sentire.

Rivendico questo punto in parte perché non penso che la disforia sia una misura utile in primo luogo – lo spiegherò tra un momento.

Capisco la reazione istintiva quando qualcuno dice che non è stato disforico. Perché sì, la disforia è dolorosa. Fa schifo. Quando ho ottenuto il primo rifiuto durante il tentativo di accesso alla mastectomia, ho iniziato ad abusare di alcol per farvi fronte – non è stato un momento divertente per me. Il dolore mi ha quasi ucciso.

So che è difficile immaginare qualcuno come trans quando non c’è comprensione di quel tipo di dolore, specialmente quando è un dolore in forma acuta che hai esperito per un lungo periodo di tempo. Siamo sullo stesso piano.

Anch’io ho reagito in quel modo. Sono umano. A volte la mia prima reazione non è sempre la più gentile.

In un mondo perfetto, avremmo un qualche indicatore affidabile o cartina di tornasole per aiutare le persone a capire se sono trans o no – qualche misura unica che cancelli ogni dubbio. Apprezzando la semplicità, capisco quanto sia attraente.

Ma la realtà non è così semplice – molte persone trans sopprimono la disforia che provano o la interpretano male o hanno difficoltà a collegarla al genere.

Ciò può rendere impossibile discernere, soprattutto dall’esterno, se la disforia è presente. Pretendere che la disforia sia l’unico indicatore dell’essere transgender, comporta troppe probabilità di errore.

Un esempio personale: ho sperimentato un certo livello di disforia per tutta la mia vita… Non sapevo inizialmente cosa fosse.

Senza andare ad analizzare la mia storia personale qui, basti dire che l’ambiente da cui provengo mi ha reso molto difficile mettere in discussione il mio stesso genere in modo sicuro.

Ho sperimentato la disforia, invece, sentendomi profondamente “brutto” e odiandomi (ne ho scritto in precedenza in questo articolo). Nessun altro mi considerava brutto o ha mai detto che lo fossi, ma era una sensazione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Ho pensato che si trattasse di una stupidaggine da adolescente. Ma la “stupidaggine da adolescente” non è andata via e sono diventato un adulto che odia sé stesso, inquieto, cinico.

Se mi aveste incontrato quando ho fatto coming out nel 2012, avreste detto che non era possibile che fossi transgender.

Sapevo di essere infelice e sapevo di odiare il mio aspetto, ma “disforia” non faceva ancora parte del mio vocabolario. Mentre ad un certo livello era sempre stata presente, non avevo modo di interpretare cosa significasse.

Non si tratta di un’esperienza insolita, fidatevi. Un sacco di persone trans fanno coming out senza aver imparato a descrivere le loro esperienze. Per alcune, a volte capita solo molto più tardi che si accorgano di aver provato qualche grado di disforia. A volte l’etichetta viene prima – e anche questo è valido.

Non ho capito quanto fosse pesante per me fino a dopo l’intervento chirurgico. Solo quando la mia disforia si è notevolmente ridotta ho capito quanto influisse prima sul mio benessere.

Era una specie di infelicità a cui ero abituato, come se fossi un pesce nell’acquario che non riesce a vedere l’acqua. Ora che sono nel periodo post-operatorio, provo una specie di euforia e agio che non credevo fosse possibile.

Ci sono persone che sperimentano la disforia in modo progressivo o per le quali peggiora nel tempo.

Penso a questo meccanismo come a una specie di “ibernazione”. Le persone sopprimono ogni tipo di emozioni, e quelle disforiche non sono un’eccezione magica. Ma quando iniziano a sperimentare con il linguaggio ed esplorano la loro identità ed espressione, quelle sensazioni cominciano ad emergere. Appena il mondo inizia a respingerle, si possono innescare quelle sensazioni che sono riuscite a reprimere.

Alcune persone sperimentano la disforia solo sotto forma di dissociazione o stato di irrealtà, intorpidimento o disconnessione. Potrebbero non collegarlo affatto al loro genere, perché non è uno stato emotivo identificabile rapidamente.

Per altre persone trans potrebbe trattarsi di salute mentale: traumi e malattie mentali potrebbero interferire con la comprensione del proprio genere e la disforia potrebbe venire attribuita ad altre cause (ne ho anche scritto qui).

In altre parole, il nostro cervello lavora per cercare di proteggerci, il che può rendere l’auto-percezione come persona trans un po’ traballante.

Questo è ciò che il cervello fa con qualsiasi tipo di trauma. E può manifestarsi come mancanza totale di sensazioni disforiche, o può portare a fraintendere la fonte o la natura di quelle sensazioni. È più comune di quanto si pensi.

Se una persona trans dice di non sperimentare la disforia, potrebbe essere vero in quel particolare stadio di transizione. Ma non è detto che lo sia per sempre. La disforia potrebbe emergere nel futuro, diventare comprensibile e riconoscibile nel tempo, o manifestarsi progressivamente man mano che diventa più sicuro elaborarla.

Ma se accusiamo le persone trans di essere false fin dall’inizio, potremmo costringerle a tornare a nascondersi e negare chi sono prima che possano mai capire.

Per me uno dei grandi problemi con il transmedicalismo come concetto è il suo potenziale di “fuoco amico”. Quando usi la disforia come metro “infallibile”, in realtà finisci per escludere molte persone trans che sono traumatizzate o vulnerabili, e probabilmente la maggior parte ha bisogno di sostegno, specialmente se stanno emergendo dal diniego o dalla dissociazione.

È più probabile che i transmedicalisti danneggino qualcuno che è trans piuttosto che scaccino un “impostore” perché in realtà, molti di noi hanno traumi e non fingono.

Quando ho fatto coming out, ho detto che non volevo ormoni e non ero sicuro di volere un intervento chirurgico. Sono decisamente il tipo di “transtrender” al quale vi sareste opposti (e, beh, lo avete fatto per un po’).

Guardandomi indietro, devo riderne di gusto. Non riesco a immaginare di non aver fatto una transizione medica.

Con un’adeguata assistenza psicologica e, sì, un incredibile sostegno della comunità, sono stato in grado di raggiungere un luogo in cui potevo identificare questa resistenza come paura del rifiuto della società e specialmente della mia famiglia. Ero in profonda negazione perché avevo paura di cosa sarebbe successo con la transizione.

Non volevo perdere la mia famiglia e, per non farlo ho perso me stesso. C’è voluto molto tempo (e molto supporto) per venire a patti con questo.

Questo è il punto, però: avevo bisogno di spazio, supporto, tempo e compassione per essere in grado di capire il mio percorso.

Nel 2018, sono alcuni anni che uso il testosterone, il che ha migliorato drasticamente la mia vita e la mia salute mentale. E ho avuto un intervento chirurgico di mastectomia, che è stata la decisione migliore che abbia mai preso. Sono molto più sano e felice ora.

Ma quando usi una misura unica come la disforia per decidere se qualcuno è degno di queste cose, corri il rischio di fare un sacco di danni a persone che non “fingono” nulla – persone come me che avevano bisogno di elaborare le cose prima di fare la scelta giusta
E ci sono molte ragioni per cui anche la transizione medica non è una decisione facile.

Alcune persone non hanno accesso per ragioni finanziarie o viene loro impedito l’accesso dai medici. Altre hanno malattie croniche che renderebbero la transizione medica rischiosa o indesiderabile. Altre ancora potrebbero considerare più sicuro fingere di essere cis. Alcune persone vivono in ambienti abusivi dove non riescono nemmeno a iniziare a contemplare una cosa del genere.

E per altre ancora nel qui ed ora semplicemente non vogliono o non sono pronti a farla.
Forse si stanno interrogando, forse hanno paura, forse sono sopraffatti, o forse sono solo fottutamente stanchi. Potrebbero cambiare idea o no… non dipende da noi.

Il perché non ci riguarda e non è sicuramente un nostro compito metterle in discussione, soprattutto perché corriamo il rischio di fare danni seri a persone che stanno attraversando periodi di merda, merda che forse non capiscono ancora o non riescono ad articolare nemmeno loro.

Non lo si può sapere.

È un po’ come quella citazione, su come ognuno stia combattendo la propria battaglia. Anche se è una battaglia invisibile – perché specialmente con le persone trans, sono le battaglie che non possiamo vedere che spesso definiscono le nostre esperienze.

Questo posso dire: un certo grado di disaccordo sul modo in cui definiamo “transgender” è inevitabile. Non è il disaccordo a crearmi necessariamente problemi.

Sarebbe impossibile mettere tutt* d’accordo all’unanimità su qualsiasi cosa. Ci sono alcune persone, ad esempio, a cui non piace la Nutella, e che letteralmente non capirò mai. La differenza qui è che il dire che non piace la Nutella, non danneggia nessuno.

Storicamente, in ogni comunità, ci sono state divisioni e dispute. Riconosco che ci saranno nodi da affrontare e penso che questo faccia parte di questo processo. Non è il primo e non sarà l’ultimo nodo da sciogliere.

Quello che metto in dubbio qui non è la definizione di transgender. Metto in dubbio cosa succede nel mondo reale quando diamo per buona la vostra definizione.

Usare la disforia o la transizione medica come base per definire l’essere trans, si traduce in gatekeeping – e il gatekeeping non funziona, perché è troppo facile sbagliarsi. E quando c’è uno sbaglio sono le persone trans a pagarlo. Punto.

Le persone che finiscono per pagare, spesso (in maniera spoporzionata) in realtà non fingono nulla e semplicemente non trarrebbero alcun beneficio dal fingere.

Ero una di quelle persone trans quando sono stato perseguitato dai transmedicalisti nel 2015. Facevo fatica a identificare e capire la mia stessa disforia. Mi è stato negato l’accesso alle cure per l’affermazione di genere da parte dei medici. Avevo problemi con il PTSD e la malattia mentale.

Era una battaglia che non si vedeva, e invece di offrire empatia, sono stato ferito da persone che avrebbero dovuto stare al mio fianco.

Ci sono persone trans che non hanno sofferto di disforia e mai, mai lo faranno? Potrebbero esserci. 

Indipendentemente da ciò che pensi, non penso che l’esistenza di persone trans che al momento non sperimentano la disforia sia una giustificazione sufficiente per invalidare chi fa coming out come trans.

Queste persone potrebbero voler comunque accesso alle cure correlate alla transizione in futuro, perché potrebbero renderle più felici o più sane. Potrebbero scoprire che sono state disforiche mentre processano o col senno di poi.

In qualunque modo la si guardi, non si può sapere con certezza se qualcuno è transgender o meno, anche con la vostra definizione – perché le persone cambiano e crescono continuamente.

Altrimenti, a quanto pare non ero transgender nel 2012, ma lo ero nel 2014. Non ero transgender quando ero troppo traumatizzato per capirlo, ma lo ero quando sono stato in grado di accedere ed elaborare le mie emozioni. Il che non ha alcun senso.

Penso che l’identità di genere abbia diverse sfaccettature e sia complessa – e lo trovo piuttosto stimolante – ma potremmo non arrivare mai ad un accordo, me ne rendo conto.

Non c’è bisogno di capire l’esperienza per rispettare il processo. 

Le persone devono essere in grado di esplorare la propria identità di genere senza ostilità, perché non sappiamo quale sia la loro realtà interna e non lo sapremo mai. Il paradosso è che più si cerca di escludere gli “estranei” in maniera decisa dalla comunità trans, più è probabile che si faccia del male a delle persone trans.

Non funziona. Non è utile. Non ha altro scopo se non quello di far male alle persone.

Quindi se qualcuno dice che è transgender dovremmo crederci (o almeno lasciarl* in pace, ok?) a prescindere da come definite “transgender”. Il rischio di rinchiudere la persona in uno stato di clandestinità e vergogna di sé è troppo alto.

Invece di investigare chi appartenga o meno alla comunità, è molto più importante assicurarsi che chiunque stia mettendo in discussione il proprio genere abbia opzioni e supporto e che queste opzioni siano protette e rese incondizionate.

Nel momento in cui dicono “Sono transgender”, mi congratulo con loro e proseguo. Cosa posso saperne io? È qualcosa che riguarda loro, la loro rete di supporto, il loro terapeuta e chiunque altro decidano di coinvolgere.

Se mi comportassi in altro modo, ci sarebbe il rischio che a una persona transgender che ha bisogno di supporto venga negato, solo a causa di un pregiudizio errato su come si presenta in un particolare momento.

È già il tipo di reazione quotidiana che riceviamo dalla maggiranza delle persone cis. Cerchiamo di non essere come loro, che ne dite?

Ecco perché, quando definisco transgender come “persona che si identifica con un genere diverso da quello che è stato assegnato alla nascita” la mia apertura è intenzionale. 

Voglio includere le persone che si stanno facendo domande, e voglio dare alle persone il permesso di evolvere o cambiare idea, perché questo è l’unico modo per garantire che le persone trans possano fare le scelte migliori per loro.

La realtà è che pochissime persone trans emergono dal grembo materno con una comprensione immediata e completa della loro identità.

Ma le persone non fanno scelte oculate quando vengono fatte sentire sbagliate o messe sulla difensiva. O nel mio caso, perseguitate. Il passaggio all’interno di una comunità che sembra una pentola a pressione, che richiede un particolare tipo di conformità, non porterà mai ai migliori risultati ottenibili.

E onestamente chiedere alle persone trans di mettere il cavallo davanti al carretto – sapere chi sono e di cosa hanno bisogno prima di usare un termine per descriversi – non è il modus operandis di molte persone.

L’uso del termine è spesso ciò che connette le persone a maggiori informazioni, supporto e auto-scoperta. Le aiuta a scoprire ciò che hanno soppresso e chi potrebbero diventare.

Quindi impossessarsi di un termine porta a problemi per molte persone nella comunità, perché hanno bisogno della lingua prima di poter trovare una struttura da cui operare.

Vorrei anche dire che capisco che potrebbe essere difficile liberarsi dall’impulso di giudicare.

Quando ci identifichiamo con le nostre lotte, si può percepire come un insulto che qualcuno che non ha lottato nello stesso esatto modo si appropri di un’etichetta che ha tanto significato per noi – un’etichetta che sentiamo di avere guadagnato, mentre altr* sembrano appropriarsene con leggerezza.

Penso che dovrebbe mettere chiunque d’accordo – come minimo – che la faccenda è molto più complicata del semplice scegliere un’etichetta e metterla nel carrello della tua identità al supermercato.

Stiamo parlando di psicologia, cultura, linguaggio, trauma, biologia, intimità, sessualità, persino spiritualità – quale aspetto dell’esperienza umana NON va a toccare il genere? E questo è in definitiva il motivo per cui penso che le definizioni riduzioniste siano dannose, come comunità.

Il genere è complicato e astratto. Se così non fosse, non ci sarebbero così tanti dibattiti continuamente. Il fatto stesso che non siamo d’accordo è la prova che ci stiamo confrontando e si tratta di una cosa complessa.

Per questo, riconosco che probabilmente non saremo mai d’accordo al 100% su cosa significhi essere transgender. Ma non ce n’è bisogno – dobbiamo solo metterci d’accordo su quale sia il modo migliore di comportarci reciprocamente.

Insomma, con rispetto.

Che si fa allora? Per quanto mi riguarda, sto cercando di minimizzare il danno.Vi sto chiedendo di pensare se non sia il caso di fare altrettanto. 

Esistono tanti percorsi diversi che le persone possono intraprendere per arrivare a capire sé stesse.

Se chiudiamo troppo rapidamente la porta a persone che non sono esattamente come noi, corriamo il rischio di chiudere la porta a qualcuno che ha bisogno di noi – qualcuno con cui potremmo avere più cose in comune di quanto ci aspettiamo.

Personalmente, non penso che le persone scelgano di essere trans in un mondo che è tutt’altro che gentile nei confronti delle persone transgender. E anche se facessero qualcosa di losco e strano, ho accettato che non potrò mai saperlo di sicuro, né posso davvero farci qualcosa.

Ma posso essere gentile con la speranza che, qualunque sia il loro punto di arrivo, trovino il percorso giusto per loro. Essere gentile con loro non mi danneggia in alcun modo.

Alla fine, è più importante (almeno per me) creare una comunità che permetta alle persone trans di prosperare. Il gatekeeping non facilita questo processo – ci rende sospettosi l’uno dell’altro, insensibili e combattivi.

Se vogliamo che le persone trans siano in grado di uscire allo scoperto, dobbiamo rendere la nostra comunità un posto abbastanza sicuro per farlo. 

Quando ho fatto coming out nel 2012, ho avuto così tante persone incredibili come modello, e ora devo molto della mia felicità e salute a loro. Se non avessi avuto il loro sostegno, sarei ancora in clandestinità, ammesso di essere ancora vivo.

Ogni persona merita la possibilità di mettere in discussione il proprio genere e di esplorarlo liberamente, senza pressioni, persecuzioni o gaslighting. Non si tratta solo di essere “gentil*”, si tratta della salute e della resilienza della comunità.

E voglio credere che la maggior parte dei transmedicalisti in realtà non approvi le persecuzioni che persone come me hanno vissuto, e non vorrei vedere capitare a nessun’altra persona quello che è successo a me.

Voglio credere che se vedessero la situazione nella sua interezza e ci pensassero davvero, mi avrebbero sostenuto, in quanto persone trans che sanno benissimo quanto sia difficile esserlo.

L’unico modo per accertarsi di non cadere nella trappola ​​del gatekeeping, e nuocerci reciprocamente è mettere fine a questa cultura del sospetto.

Nel dubbio, dobbiamo mostrare gentilezza e lasciar vivere le persone. Non possiamo capire in che punto del loro viaggio si trovino, ma meritano la libertà e la dignità di percorrere quella strada e vedere dove li conduce. Meritano tutto il tempo e lo spazio di cui hanno bisogno per capirlo.

Possono continuare o meno su quella strada – ma non sta a noi deciderlo.

Vi ho dato tutti il beneficio del dubbio qui, perché credo che ognuno di noi lo meriti.

Vi prego di fare lo stesso con le altre persone in questa comunità.