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Vietare l’utero in affitto: un passo indietro pieno di contraddizioni

Utero in affitto: una donna incinta si accarezza la pancia

A distanza di pochi mesi dalla fine delle polemiche sulla gestazione per altri (o utero in affitto, per chi la contesta) che avevano infiammato i dibattiti parlamentari e femministi in Italia sin dalla presentazione del ddl Cirinnà e in particolare della stepchild adoption, la discussione si riaccende a causa dell’appello di 50 lesbiche contro la gpa, che ne chiede l’abolizione internazionale.

Già a dicembre dello scorso anno, incalzate dalle prese di posizione degli esponenti politici italiani e da quelle delle femministe europee, alcune femministe italiane, in particolare quelle di Se Non Ora Quando Libere, avevano lanciato la petizione “No all’utero in affitto: riprendiamoci la maternità” e il Parlamento Europeo aveva condannato tale pratica.

Le criticità messe in risalto dal nuovo appello, nonostante i nove mesi di distanza, sono però le stesse evidenziate nel primo.

La maternità surrogata, infatti, sarebbe “la messa a disposizione del corpo di una donna che genera bambini su commissione”, si legge. La donna diventerebbe un mezzo di produzione e di conseguenza gravidanza e parto un “mestiere”. E nemmeno i neonati uscirebbero da questa logica di mercato diventando di fatto “dei prodotti con un valore di scambio”.

Essendo un affare, inoltre, aumenterebbe quei “rapporti di dominazione famigliari, sessisti, economici, geopolitici” che causano lo sfruttamento tipico del colonialismo e della dominazione tra classi.

Ma soprattutto, si snaturerebbe il legame madre-figlio, anzi, lo si “reciderebbe” proprio, attraverso l’uso di “ovociti prelevati da altre donne”, il divieto dell’allattamento e il distacco totale dalla madre biologica.

Motivazioni come queste fanno tornare indietro di decenni conquiste femministe che oggi vengono date per scontate.

Il ritorno al paternalismo, all’idea che la donna da sola non sia in grado di scegliere, ma abbia bisogno di qualcuno che la protegga da se stessa dicendole ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Il ritorno all’idea che l’utero e il corpo non appartengano alla donna (“l’utero è mio e lo gestisco io“, ricordate?) e che quindi lei non possa decidere liberamente che cosa farne.

Il ritorno all’identificazione di gravidanza e maternità, tanto da chiedere che la “madre legale” sia “colei che ha partorito e non la firmataria né l’origine dell’ovocita”.

Il ritorno all’idea che vietare una pratica serva per farla scomparire e non solamente a relegarla alla clandestinità e quindi allo sfruttamento.

Numerose sono poi le contraddizioni che emergono nell’appello.

Si parla di autodeterminazione delle donne e poi si vieta che queste possano scegliere per sé.

Si identifica la madre legale con quella biologica, ma poi si accetta il ricorso all’adozione in tutti i casi tranne quello in cui il neonato non provenga da una Gpa.

Si denuncia che con la Gpa il parto diventerebbe un mestiere, ma allo stesso tempo si parla del mancato riconoscimento del “lavoro di madre” nel mondo.

Si nega la “mistica della maternità“, ma poi si usa il termine “creatura”, parola che ancora rievoca scenari religiosi, anziché “neonato”.

Infine si parla di rapporti di geopolitica, quando molti dei paesi a cui gli italiani si rivolgono per la Gpa sono paesi come gli Stati Uniti e il Canada, non certo considerati del terzo mondo.

L’appello delle lesbiche contro la gestazione per altri non toglie né aggiunge nulla al dibattito che aveva spaccato in due il mondo femminista già lo scorso anno.

Mette solo in discussione ulteriormente le storiche conquiste delle lotte delle donne sull’autodeterminazione e la libertà di scelta.

E voi che cosa ne pensate?