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Piangere mi ha insegnato a essere un alleato femminista

Ovvero perché il femminismo deve interessare gli uomini etero cis: «Una lotta che mi riguarda sia perché sono principalmente parte del problema, ma anche perché soffro le conseguenze dell’essere, in qualche modo, il carnefice di me stesso»

“Lasciate piangere i ragazzi” | Foto da un progetto di Liran Okanon e Liz Plank

Una delle cose che mi ha insegnato mio padre è che quando si condivide una lotta politica ci sono due modi di partecipare: se la lotta è anche tua puoi farlo come credi, ma se non ne sei tu il protagonista, allora probabilmente la cosa migliore è non rompere le scatole e innanzitutto stare ad ascoltare.

Essendo un maschio etero e cis (cioè che si riconosce nel genere assegnato in base al sesso biologico) mi son chiesto quale fosse il mio ruolo all’interno della lotta femminista. Dovrei sentirmene parte?

Per capirlo mi sono messo ad ascoltare. In silenzio.

Il femminismo ha cominciato a interessarmi non tanto perché le donne avessero il problema di non avere dei diritti pari alle altre persone: nel nostro sistema economico sociale ci sono mille soggetti diversi che non hanno gli stessi diritti di altri. Da un certo punto di vista perché i diritti delle donne dovrebbero essere più importanti dei diritti, che so, delle persone precarie, dei/lle braccianti dei campi, degli/lle operai/e?

Mi ha interessato perché, dopo un po’, dopo parecchio, ho incominciato a capire che il femminismo non era solo il dare più visibilità alle donne o cercare un linguaggio diverso, che fosse “più rispettoso”: era un’altra chiave che mi permetteva, come il marxismo, di leggere e comprendere i rapporti di potere all’interno della società, sia intesa in senso ampio che intesa in senso numericamente ridotto, familiare, di coppia e… di società interiorizzata in me stesso.

Con il tempo ho cominciato a sviluppare un tipo diverso di empatia con il femminismo, non quella della razionalità e dell’analisi, pur assolutamente necessaria, ma quella dell’empatia emotiva.

Questa però la sentivo come una contraddizione: come posso, io maschio cis etero, sviluppare un’empatia emotiva con chi subisce un tipo di oppressione, come quella del patriarcato, che io non sperimento sulla mia pelle? La risposta è umilmente semplice: non posso.

Quel che posso fare, è capire che anch’io, in modo diverso ed enormemente inferiore, sperimento gli effetti del patriarcato sulla mia pelle.

L’ho compreso quando, avvicinandomi ormai ai trent’anni, mi sono accorto che non riuscivo a piangere.

Di notte, da solo in macchina, fermo in un parcheggio con dentro un’emozione pesante, una disperazione, una pressione dentro il cranio che ti vorrebbe far piangere, che ti dovrebbe far piangere e… niente.
Nessuno sfogo per quella sofferenza era possibile. L’unica cosa possibile era “essere forte“. Metterla da parte. Sperare di estinguerla pian piano, portandomi quella pressione in testa per giorni, per settimane, per mesi e più… sorridendo quando dovevo sorridere e facendomi forza quando pensavo di dover essere “forte”, abituandomi a convivere con quella pressione continua.

Facevo questo non perché pensassi: “è così che deve fare un uomo”, ma perché quella era l’unica cosa che avessi imparato a fare.

Semplicemente in un mondo in cui la tristezza, la solitudine o la paura sono sentimenti che non si possono esprimere se non in modi strettamente codificati dalla società e che ti fanno subito diventare un bersaglio, il piangere non è concesso.

Non cadrò nell’ovvio tranello che la retorica ci tenderebbe dopo queste considerazioni e sarò onesto: non è stato il femminismo a cambiarmi. È stato il lutto per la morte di mia madre.

Elaborare quel dolore, che è uno di quelli che mai ti abbandona, mi ha costretto ad affrontare la situazione. Perché è quel tipo di dolore che di punto in bianco ti colpisce come un pugno in faccia e ti lascia stordito e sanguinante. Per cui per sopravvivere devi cominciare a sentirlo vicino alla superficie, non lontano da te, devi sentire le lacrime arrivare e accoglierle, accogliere il dolore.

È stato però il femminismo a permettermi di accettare quel cambiamento, a capire che in un senso più ampio, che non avevo mai inquadrato, piangere non era solo una cosa che volevo, o meglio, di cui avevo bisogno e che desideravo disperatamente, era una cosa che potevo fare. Era una cosa che non avrebbe messo in discussione chi fossi. O forse l’avrebbe fatto, ma in senso buono, anche se doloroso.

Senza aver prima ascoltato, senza aver cercato di empatizzare razionalmente, forse non avrei potuto capire emotivamente il femminismo e le sue lotte, forse per altri il percorso è inverso, non lo so.

So che nel mio caso il femminismo di cui avevo avuto esperienza mi aveva dato delle chiavi di lettura non solo sul mondo, ma anche su me stesso.

Empatia infatti non è solo sentire ciò che sentono le altre persone perché si è nella stessa condizione, è capire che le cose diverse che sentiamo hanno una stessa origine, una stessa causa, pur manifestandosi su di noi in modi completamente diversi, sia per la forma che per l’intensità.

Per cui anche se apparentemente, formalmente, in quanto maschio cis etero, ho avuto dei dubbi sul poter essere femminista, posso dire che il femminismo è diventata, razionalmente ed emotivamente, una mia lotta. Una lotta che mi riguarda sia perché sono principalmente parte del problema, ma anche perché soffro le conseguenze dell’essere, in qualche modo, il carnefice di me stesso.

Potrei quindi definirmi femminista visto che la sento effettivamente una mia lotta?

Sì, ma per il mio percorso personale preferisco autodefinirmi alleato.

Ha per me il senso profondo di non dimenticare che, pur essendo il carnefice di me stesso, non sono io la prima soggettività che subisce il patriarcato, le prime vittime sono altr* e tenere bene in mente questa cosa non vuol dire mettermi in secondo piano: vuol dire semplicemente che ci sono più fronti su cui combattere. A fianco o un passo indietro rispetto a chi è in prima linea, ma in prima linea su ciò che mi riguarda personalmente, in quanto maschio bianco cis etero.