L’interesse intorno a Mario Mieli, pioniere del movimento omosessuale italiano, e alla sua opera più conosciuta, Elementi di critica omosessuale (Einaudi, 1977) si è riacceso negli ultimi anni, a partire dalle iniziative per il trentesimo della sua scomparsa fino alla recente riedizione del libro (Feltrinelli, 2017) e all’uscita del film biografico Gli anni amari (2019) di Andrea Adriatico (commentato dalla sorella Paola Mieli in questo articolo su La falla).
L’opera di Mieli, nata dopo la rottura con F.U.O.R.I (il Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) e nel contesto delle prime embrionali lotte LGBT+ in Italia («la liberazione gay era appena cominciata ma non ancora del tutto condivisa», ricorda Porpora Marcasciano, presidente del Movimento Identità Trans, in Antologaia), anticipa molti temi delle lotte contemporanee, proprie anche del femminismo intersezionale.
Mario Mieli rappresenta, infatti, una svolta per il movimento omosessuale italiano: con Elementi di critica omosessuale, egli consegna alla causa un manifesto teorico di acuta intelligenza che aprirà la strada agli studi queer in Italia. L’eredità di questo intellettuale dissidente è oggi conservata quasi esclusivamente dai movimenti LGBT+ italiani e pressoché dimenticata negli ambienti culturali mainstream.
In Elementi di critica omosessuale Mieli condensa tutto il suo pensiero sulla sessualità e l’omosessualità, in una radiografia tanto dura quanto vera della società italiana degli anni Settanta, mostrando a un’intera generazione la limitazione sessuale imposta dalla società eterosessuale e capitalista (per usare due termini a lui cari).
Un primo dato da tenere in considerazione è la doppia natura del libro: da un lato, Mieli scrive un testo quasi accademico, una critica serrata alla psicanalisi tradizionale (gli “psiconazisti”) che continuava a definire l’omosessualità una malattia da curare; dall’altro, spesso il tono si fa militante, in un’agguerrita rivendicazione politica di libertà sessuale.
L’intento del libro, però, giustifica questa ambivalenza: l’obiettivo di Mieli è dimostrare che l’omosessualità non è un male da debellare, ma una condizione intrinseca alla sessualità di ogni essere umano, e l’augurio che sembra aleggiare dalla prima all’ultima pagina è che presto o tardi si possa giungere a una piena libertà di espressione sessuale.
Un libro che all’epoca fu giudicato osceno, ma nel quale sono coniati molti dei termini tutt’oggi utilizzati all’interno dei movimenti LGBT+. Senza i molti neologismi che leggiamo in Elementi di critica omosessuale ci mancherebbero ancora le parole per descrivere molti degli aspetti del sistema patriarcale ed eteronormativo in cui siamo immersi e per identificare le dinamiche di dominazione a cui siamo soggetti. Forse ne saremmo anche meno consapevol*.
Di tutti questi nuovi vocaboli, mi sembra che due in particolare siano ancora oggi particolarmente provocatori ed efficaci.
Il primo è educastrazione.
Con questo termine, Mieli vuole indicare l’educazione sessuale castrante a cui la società sottopone i bambini e le bambine con l’imposizione della norma eterosessuale «allo scopo di costringerli a rimuovere le tendenze sessuali congenite che essa giudica “perverse”».
A coloro che si domandano se si nasce o si diventa omosessuali, secondo Mieli bisogna rispondere che si nasce dotati di una disponibilità erotica amplissima, rivolta prima verso se stess* e la madre e poi via via verso le altre persone, indipendentemente dal loro genere, e verso il mondo. Ci si definisce poi eterosessuali od omosessuali a causa dell’educastrazione, rimuovendo gli impulsi omoerotici nel primo caso e quelli eterosessuali nel secondo.
Anche l’omosessualità, se seguiamo la riflessione di Mieli, è una condizione forzata e rimane in una prospettiva binaria, di decisa monosessualità, la quale ripropone una visione del mondo schematica e non del tutto liberata. Sebbene l’unica monosessualità accettata sia l’eterosessualità e l’omosessualità rimanga condannata, continua Mieli, essa rimane all’interno di questa logica. La natura dell’impulso sessuale infantile è infatti molto più variegata, è «polimorfa e “indifferenziata”».
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L’altra parola importante, esprime uno dei concetti più rivoluzionari del pensiero di Mieli: la transessualità.
A questo termine, usato e abusato, Mieli dà un significato più ampio: in primo luogo, con esso egli intende la natura transessuale del desidero di ogni persona, rivolto cioè indistintamente a uomo e donna, costretto «dalla repressione ad adattarsi a una monosessualità che lo mutila»; in secondo luogo, la presenza del maschile e del femminile in ogni persona.
Siamo tutti, nel nostro profondo, persone transessuali, lo siamo fin da bambini per poi essere costrett* a identificarci con un ruolo monosessuale specifico, maschile o femminile.
Attraverso l’educastrazione, la società impone un mondo fortemente binario, separando nettamente uomo e donna, maschile e femminile, eterosessualità e omosessualità. Ma la realtà, ci dice Mieli, è molto più complessa di così ed è necessario, per costruire un mondo più libero, riconoscere che i confini sono sfumati (soprattutto dentro di noi) e sono sempre una costruzione fittizia.
Riconoscere un mondo più fluido significa riconoscere che non esiste alcuna norma e che tutte le soggettività sono degne di essere espresse. Oggi tali affermazioni possono sembrare delle assunzioni per le teorie queer, ma negli anni Settanta erano un atto politico audace.
Scandaloso per convinzione, mai integrato e avanguardistico, Mieli ha vissuto una vita estrema, fino al suicidio avvenuto nel 1983, all’età di trentun anni. Molte ombre rimangono sulla sua biografia e sul suo pensiero, ma limpida è la necessità di riscoprire l’opera di un intellettuale arguto e onesto, ancora troppo (e volontariamente) dimenticato dalla cultura italiana.
L’attualità del pensiero di Mieli è testimoniato dalle contemporanee lotte al binarismo sessuale e di genere. Elementi di critica omosessuale è un supporto teorico a tali movimenti, ma anche un esempio della loro ormai decennale storia.
Invisibilizzare la sua opera è stato l’ennesimo esempio della negazione della cultura “altra” in Italia. Certo è, come direbbe Mieli, che il tentativo forte di rimuovere una cosa è il sintomo palese del desiderio profondo verso quella stessa: «la gente “normale” si sente in colpa perché, sotto sotto, sa di essere tendenzialmente (un po’) frocia».