La serie tv tratta dal “Racconto dell’ancella” di Margaret Atwood mette al centro il valore della resistenza all’oppressore e prova a essere più inclusiva rispetto al romanzo del 1985, ma diversificare il cast rimane un’operazione di facciata
È finalmente arrivata in Italia la serie tv The Handmaid’s Tale, che ha fatto incetta di premi agli ultimi Emmy Awards, adattamento televisivo dalla fotografia impeccabile ed emozionante del romanzo del 1985 Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (che noi abbiamo recensito qua).
Si è parlato tanto di questa storia distopica ma dolorosamente attuale: in un futuro non troppo lontano, non troppo improbabile, dove una crisi nucleare ha messo a dura prova il futuro del genere umano, una setta ultra-conservatrice è salita al potere negli Stati Uniti grazie all’uso della forza e della paura, instaurando la teocrazia autoritaria di Gilead.
I corpi delle poche donne fertili rimaste sono considerati alla stregua di un bene nazionale e sottratti al controllo e alla libera volontà delle donne che li abitano. Le sfortunate vengono inquadrate come ancelle e assegnate ai più alti esponenti delle gerarchie per scopi riproduttivi. Tra queste, la protagonista June, attraverso gli occhi della quale ci viene mostrato il nuovo, terrificante mondo di Gilead.
Sia il romanzo che la serie sono riusciti a centrare alcuni nodi chiave della questione femminile, mettendo in luce come le aberrazioni del regime di Gilead abbiano le loro radici in concezioni misogine e discriminatorie che popolano il mondo in cui anche noi viviamo.
La speculative fiction (genere che si basa su “speculazioni” sul futuro, immaginando come potrebbe essere) è per definizione un “E se…?” ma in storie come questa la domanda sembra essere piuttosto “Quando?“. Tutto il male e l’orrore di The Handmaid’s Tale sono proiettati sì altrove, ma il continuo confronto col mondo “di prima” che sia il romanzo che la serie ci presentano, ci mostrano in realtà che le radici del male del mondo distopico di domani sono in quello di ieri, il nostro oggi.
Spogliato dei suoi aspetti più caratteristici, quello di Gilead è un mondo non solo possibile, ma che è già esistito, e che era presente in frammenti anche nel “mondo libero”, senza il quale gli orrori del regime non sarebbero stati possibili.
Il limite di questa narrazione rimane, però, la difficoltà, o per meglio dire la riluttanza, a parlare di questioni razziali, un problema che condivide con molta letteratura distopica.
Il libro rimarrà sempre come una testimonianza di quello che poteva essere il femminismo di una militante come la Atwood in quegli anni: un white feminism nel senso più letterale del termine. Ovvero, un romanzo scritto da una donna bianca occidentale che sostanzialmente affronta la questione femminile dal punto di vista di una donna bianca rivolgendosi ad altre donne bianche.
La questione della razza è stata totalmente evitata dalla Atwood. In un passo del libro, un telegiornale distrattamente acceso sullo sfondo informa che “i Figli di Cam”, ovvero la popolazione di colore, erano stati deportati. Si deduce, dunque, che nel libro la classe dirigente di Gilead abbia tra le sue credenze anche quella del suprematismo bianco e che lo stia attuando con una sorta di apartheid: le implicazioni razziali vengono dunque letteralmente spinte fuori dal romanzo e The Handmaid’s Tale è un racconto che indaga sì la questione femminile, ma come una questione interna dei bianchi, mancando totalmente di intersezionalità.
Ma se questo non stupisce in un romanzo del 1985, cancellare le persone di colore non può funzionare per una serie statunitense scritta e girata oggi.
La scelta è stata allora quella di una sorta di color-blind casting, un casting “che non vede il colore”, cioè che sceglie gli attori per un ruolo a prescindere dalla razza. Il problema del color-blind casting è che se da un lato aumenta l’inclusione, rappresentando razze diverse, dall’altro lo fa senza affrontare le implicazioni razziali, un lusso che non ci si può concedere in una storia come questa.
Nell’immaginare quell’inferno che è Gilead, pericolosamente vicino alla realtà che molte donne hanno vissuto e vivono, la Atwood ha innegabilmente attinto a piene mani dalla narrativa degli schiavi afroamericani, a partire dalla tradizione orale delle storie degli schiavi a cui il racconto si ispira, fino al dettaglio della strada clandestina che porta le donne in salvo in Canada, proprio come era per gli schiavi, supporto della comunità quacchera incluso.
In particolare il romanzo echeggia le storie reali delle schiave di colore: scambiate e vendute come animali, disumanizzate, private della loro identità e del loro nome, identificate con il nome del padrone, valutate solo per ciò che dal loro corpo si poteva estrarre, lavoro e figli, stuprate da padroni e negrieri, seviziate negli esperimenti di quello che è considerato il padre della ginecologia J. Marion Sims (e le donne di colore furono pure quelle su cui, molto più tardi, vennero sperimentati i primi, e ancora molto pericolosi, metodi contraccettivi).
Il fatto che ora, nella serie, due personaggi importanti come Moira e Luke siano interpretati da attori afroamericani (rispettivamente Samira Wiley e O-T Fagbenle) non aiuta a fare i conti con tutto ciò. Rendere le foto promozionali più simili ad una pubblicità della Benetton non rende questa reinterpretazione della storia di The Handmaid’s Tale più coscienziosa dal punto di vista della razza di quanto lo fosse il romanzo di trenta anni prima.
Anche perché le situazioni, e in particolar modo gli orrori, di questa storia ricalcano più di ogni altra cosa la realtà che le donne appartenenti alle varie minoranze razziali hanno subito nel corso della storia americana.
“L’aspetto più incisivo di The Handmaid’s Tale è che non racconta l’America come potrebbe essere, ma come è sempre stata”, evidenzia un articolo di Vulture che riporta l’esempio delle molte donne messicane, povere e di classe operaia, che tra gli anni ’60 e ’70 sono state sterilizzate contro la loro volontà dopo essere entrate in ospedale per dei parti cesarei. Il documentario No Màs Bebés racconta la storia di queste donne, ingannate e costrette a firmare i moduli necessari alla legatura delle tube sotto la minaccia che i loro bambini sarebbero altrimenti morti. Molte di loro soffrirono di stress post-traumatico, tendenze suicide, e dovettero portare lo stigma della sterilizzazione.
Non fu l’unico caso: in quegli anni continuava uno sforzo governativo più ampio e lungamente protratto nel tempo (a cominciare già dagli inizi del ‘900) volto a ridurre il tasso di natalità di quelle fette di popolazione che maggiormente potevano incidere sul welfare, ma che aveva uno scopo dichiaratamente eugenetico: dal 1924 al 2010 ci sono stati casi in North Carolina, in Virginia, in California e in totale furono 31 gli stati americani ad avere un programma eugenetico governativo. Si stima che siano state sterilizzate tra le 100 e le 150mila donne di basso reddito, fascia di popolazione prevalentemente non bianca.
Alla luce di tutto ciò, è possibile realizzare una serie che vuole parlare dei soprusi che le donne hanno subito in ogni era e in ogni dove (ma in particolare negli Stati Uniti), di governi autoritari che derubano le donne della possibilità di decidere del loro corpo, delle battaglie che sul corpo delle donne di consumano e che nel loro spirito lasciano i segni, ignorandone le implicazioni razziali, a favore di una color-blindness pretenziosa?
Sono stati inseriti personaggi di varie etnie in tutti i livelli della popolazione di Gilead, oppressi e oppressori, senza affrontarne le conseguenze in relazione al retaggio storico. Le giustificazioni dello sceneggiatore per il quale l’emergenza riproduttiva avrebbe spinto le gerarchie di Gilead a mettere da parte i pregiudizi razziali, non convince, ed è francamente impossibile credere che una femminista lesbica di colore come Moira non si approcci all’oppressione della gerarchia di Gilead alla luce della sua personale esperienza.
Quello che sembra trasparire è una volontà di essere più inclusivi rispetto al materiale originale, senza faticare ad integrare il bagaglio storico delle specificità razziali nei temi femministi. Il risultato è una grande occasione persa, l’occasione di riuscire ad affrontare la questione femminile in maniera intersezionale.
Farlo avrebbe reso la serie ancora più coraggiosa e veramente innovativa, ma anche per questa volta (per questa stagione? la speranza è l’ultima a morire) si è preferito non farlo. Ci ritroviamo, invece, con personaggi di colore smussati, indirizzati a servire una narrativa ancora principalmente bianca e generalista.
Abbiamo avuto forse un primo eclatante esempio di color-blind casting in Grey’s Anatomy (citato a questo proposito pure da The Guardian) la cui creatrice, la produttrice di colore Shonda Rhimes, nel 2005 dichiarò: “Ho poco più di trent’anni e i miei amici e io non ci mettiamo a discutere di razza. Siamo nell’era post-diritti civili, post-femminista, e diamo per scontato che viviamo in un mondo diverso“.
Questo tipo di visione cozza con l’America di oggi (e chissà che non abbia rivisto le sue posizioni anche Shonda Rhimes a giudicare dai suoi ultimi lavori), che nella sua felice corsa verso il progresso, e nella fretta di definirsi “post-razziale” ha evidentemente saltato qualche passaggio tra le leggi di Jim Crow e il suo primo presidente afroamericano, e si trova oggi a fare i conti con un sacco di nodi irrisolti, con un retaggio di razzismo e segregazione che è inciso nella sua storia e che, dopo essere forse stato spazzato sotto il tappeto in un momento di ottimismo collettivo, è ora tornato fuori e non se ne andrà a meno che non lo si affronti.
La razza di una persona (reale o immaginaria che sia) oggi gioca ancora un grosso ruolo, non solo negli Stati Uniti ma ovunque, e ignorare che una persona incontri specifiche difficoltà, in virtù della sua appartenenza etnica, a vantaggio dell’andare “oltre la razza” significa ignorare queste voci dissonanti, dando anche una bella imbiancata alla coscienza collettiva dei bianchi, così sollevati dal vivere in un mondo “post-razziale”.