Quando il petto di una bambina diventa seno?
Perché si può mostrare il seno di un uomo ma non quello di una donna?
Una donna senza seno è meno donna?
Quando il seno di una donna trans diventa una tetta che è proibito mostrare?
Perché sui social network si censurano i capezzoli delle donne e non quelli degli uomini?
Perché sulle copertine delle riviste o nelle pubblicità vengono mostrati seni di donne iper sessualizzati ma è un problema il seno di una donna che allatta un* bambin*?
Queste sono le domande che si fa e ci fa CHEAP sui muri del centro di Bologna attraverso la campagna di poster art “Tette Fuori“, ideata in collaborazione con School of Feminism.
Leggendole, me ne vengono in mente molte altre.
Quanto ci appartiene davvero il nostro seno?
Quanto ci sentiamo libere e liber* di mostrarlo, coprirlo, concepirlo al di fuori dallo sguardo erotico maschile eterosessuale?
L’ho domandato anche a Sara Manfredi, art director e curatrice d’arte nonché co-fondatrice di CHEAP, progetto di arte pubblica nato nel 2013 e gestito oggi da quattro donne, che con le affissioni pubbliche di poster realizzati da artist* italian* e internazionali ci fa riflettere sui nostri corpi e le nostre lotte femministe. Era successo nel 2020 con La lotta è fica e sta succedendo ora con Tette fuori.
La campagna mostra foto e rappresentazioni di seni di ogni tipo accompagnati da affermazioni e slogan che riguardano l’autodeterminazione di questa parte del corpo femminile che viene sistematicamente sessualizzata oppure censurata.
«Pochi secondi dopo aver pubblicato le immagini sul mio profilo Facebook – racconta Sara – il contenuto è stato rimosso e il mio account è stato bloccato per 24 ore. Ciò che ho trovato eccezionale è stata la velocità con cui l’algoritmo ha individuato e censurato il post, quando sappiamo quanto sia difficile far rimuovere dai social altri contenuti che sono evidenti incitamenti all’odio. Quante volte ci è capitato di ricevere dopo diversi giorni da una segnalazione la risposta che i contenuti non violavano “gli standard della community”? Se l’incitamento al razzismo e alla violenza di genere non violano gli standard, ma i capezzoli femminili vengono censurati alla velocità della luce, dobbiamo iniziare a chiederci come funziona questo algoritmo e perché. Quello che viene da pensare è che il web sia un posto molto maschio, molto bianco e molto cisgender ed eterosessuale».
Sono i capezzoli femminili, infatti, e non quelli maschili a dover essere nascosti in pubblico e photoshoppati on line. Ma i capezzoli non dovrebbero avere genere.
«I seni e i capezzoli – afferma la promotrice della campagna – non sono organi genitali, allora perché questa corsa alla censura? È evidente che l’inghippo sia nel fatto che sono parte del corpo femminile e il male gaze li ha erotizzati e oggettificati». Quello stesso sguardo maschile che è punto di vista dominante di ogni arte, visiva e non: le donne vengono osservate, raccontate, mostrate e concepite solo in funzione della prospettiva di un uomo cisgender eterosessuale.
«Quando i seni assolvono alla funzione maschile vieni spogliata, ma se una donna si spoglia con un gesto di autodeterminazione che si sottrae a questo immaginario erotico – mostrando il seno, ad esempio, per allattare, per portare avanti una rivendicazione politica, per mostrare un corpo colpito da una malattia e dalla chirurgia oncologica – allora ci viene detto di coprirci», riflette Sara, ricordando la polemica scatenata dall’immagine realizzata per la campagna La lotta è fica dall’artista Silvia Calderoni, che si era ritratta nuda con sei capezzoli e un pube peloso in bella vista.
«Quando i corpi femminili si autorappresentano e diventano corpi desideranti e non desiderati, fuori dall’ottica dell’erotismo maschile etero, diventano disturbanti. Non c’è spazio per il corpo femminile che si racconta da solo e rompe il fragilissimo schema eteronormato del desiderio. Chi si è sentito disturbato da alcune immagini della campagna La lotta è fica, era disturbato dalla potenza che esprimevano le donne nell’essere soggetti a modo loro e non più oggetti».
Il capezzolo femminile autodeterminato diventa dunque, secondo Sara Manfredi, «un’area di pericolo, di potere e di potenza. Mette in difficoltà, crea dei problemi, altrimenti lo si lascerebbe mostrare tranquillamente come quello maschile. Dobbiamo decodificare questo sistema: cosa mettiamo in crisi con i nostri capezzoli? Dove facciamo inceppare il meccanismo?». Partendo da queste domande dobbiamo capire «cosa possiamo fare per rivendicare la nostra autodeterminazione e per influenzare le norme ridefinendo gli ambiti di accettazione del corpo che subisce censure».
Così il corpo femminile, il corpo che cerca di sottrarsi al binarismo, il corpo disabile, il corpo grasso, il corpo razzializzato, il corpo sessualizzato, qualsiasi corpo – insomma – che si dice e si racconta fuori dalla norma, «mette in crisi quello che pensiamo sulle identità a cui rimanda».
CHEAP non si sottrae alla sfida, anzi la rilancia con la campagna Tette fuori, che trae grafiche, testi e fotografie dal libro ¡Pechos Fuera!, di Patricia Lujan, edito nel 2020 in Spagna da Zenith: un testo in cui si esamina la rappresentazione dei seni nella storia dell’arte e della comunicazione visiva più contemporanea, accompagnandola da una riflessione politica, sociale e iconografica.
L’odio e il mansplaining on e off line contro i corpi fuori norma non si ferma, ma il sostegno che CHEAP riceve è di gran lunga superiore agli attacchi, ci rincuora Sara Manfredi: «Il modo in cui interveniamo nello spazio pubblico, che è spazio di cittadinanza, sta funzionando come rivendicazione collettiva». Dare spazio e voce a temi che creano spazi femministi in città che non sono sicure per le donne e per molte altre soggettività, diventa «un’esperienza di empowerment per tante persone. Questo ci fa sentire una forte responsabilità, ma rappresenta anche un motore straordinario per il nostro lavoro».