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Suffragette: il film che ci ricorda di continuare a lottare

Quante di noi, quando pensano alle suffragette, hanno in mente l’allegro e vivace personaggio del film di Mary Poppins? L’energica mamma che canta l’inno per il diritto di voto mentre il marito esasperato alza gli occhi al cielo e le altre donne della casa la assecondano senza troppa convinzione?

La mamma suffragetta in Mary Poppins

Suffragette, il film appena uscito nelle sale americane e britanniche (in Italia aprirà a novembre il Torino Film Festival), ci costringe a ripensare e a ricontestualizzare quell’immagine e ci offre uno spaccato della storia del movimento in uno dei suoi momenti più critici e drammatici.

Il film ruota attorno a personaggi fittizi che si trovano ad interagire con due importanti suffragette militanti realmente esistite: Emmeline Pankhurst (Meryl Streep) ed Emily Wilding Davison (Natalie Press). La storia ci mostra l’evoluzione della militanza di queste donne durante i mesi che precedono la morte di Emily, la quale per ottenere visibilità si getta davanti al cavallo in corsa di Re Giorgio V.

Secondo noi, due temi particolarmente interessanti emergono nel film.

Il primo riguarda il cambio radicale di registro rispetto alla tendenza, nelle tradizionali rappresentazioni mediatiche, di sminuire e ridicolarizzare il movimento delle suffragette. In questo film è particolarmente forte, invece, la descrizione della loro sofferenza, degli ostacoli anche violenti che dovevano superare, e della loro totale dedizione alla causa.

Non c’è niente di frivolo nella loro militanza e quello che affrontano non è semplicemente lo sfottò superficiale e distratto di mariti annoiati. Erano attiviste, resistenti, persino terroriste, ma non donne in festa di ritorno da una parata. In questo senso il film secondo noi denuncia e supera il presupposto intrinsecamente sessista che caratterizzava l’immagine un po’ giocosa delle suffragette.

suffragette

Il secondo tema assolutamente pregnante del film è quello dell’intersezionalità tra genere e classe sociale di appartenenza. Normalmente, è più facile leggere le storie di suffragette della classe media, ma questo film si concentra in particolare sulla storia di donne appartenenti alla classe operaia, molto povere e che erano costrette a lavorare in condizioni estreme, senza nessun diritto e ad un salario al di sotto del livello minimo di sopravvivenza. Le loro vite sono precarie e il minimo “incidente” può causare la perdita di tutto. Non hanno mezzi economici né la protezione politica a fare da rete di sicurezza.

Innanzitutto è interessante il racconto delle loro vite ed esperienze che fino ad ora erano state totalmente neglette, almeno nel mondo del cinema. Inoltre, il film pone una domanda interessante circa la sofferenza e il sacrificio richiesto a seconda della classe sociale: le donne della working class rischiano il tutto e per tutto per la loro causa e soffrono gravi abusi fisici e psicologici. Perdono le loro famiglie e il loro ruolo nella società per dedicarsi esclusivamente alla battaglia per il voto.

Le suffragette della classe media, invece, non subiscono gli stessi abusi perché protette economicamente e politicamente dai loro padri e mariti e difficilmente vanno in prigione. Tuttavia questo loro “privilegio” riflette il livello di sessismo che caratterizzava la società di allora, in quanto solo gli uomini potevano disporre delle loro ricchezze. Il film dunque mostra chiaramente la situazione paradossale per cui queste donne, pur possedendo beni materiali, non possono scegliere come utilizzarli, mentre le donne senza rete di sicurezza, che potrebbero dunque scegliere, non hanno ormai più niente.

La pellicola termina con un messaggio importante: la battaglia per il diritto al voto non è terminata e ci sono ancora paesi che nel 2015 negano alle donne questo diritto umano universale. Ma ci deve anche far riflettere sull’intersezionalità di alcune tematiche (come in questo caso classe e genere) e reagire ogni volta che, ancora oggi, una battaglia femminista viene sminuita e ridicolizzata.