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Storie di “fimmine” che si ribellano alla ‘ndrangheta

Il libro di Lirio Abbate “Fimmine ribelli” raccontato in una tesi di laurea

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“Donne calabresi vestite di nero e con corona di spine”, di Marialba Russo, 1981 (lombardiabeniculturali.it)

Pestata e minacciata dopo aver tentato di chiedere la separazione dal marito, per suo padre lei non esiste più, perché – per molti uomini d’onore ancora nel XXI secolo – è “mégghiu na figghia morta ca una disonorata” (meglio una figlia morta che una disonorata). La scelta della figlia è per lui inconcepibile, in quanto i suoi sentimenti e la sua volontà sono secondarie rispetto all’onore. Simona Napoli ha venticinque anni e vive in un paesino poco distante da Rosarno, in Calabria, dove vigono ancora le stesse leggi arcaiche che permettevano agli uomini di disporre in modo totale delle loro donne, piegandole ai propri fini.

Da quando le organizzazioni criminali hanno preso piede nella storia del nostro Paese, infatti, la prospettiva che si apriva per chi era nata femmina in terre di ‘ndrangheta, era quella di sposare un uomo d’onore, di rispettarlo, di assecondarlo, di servirlo e di portare in grembo i suoi figli – possibilmente maschi – per educarli ai codici e alle regole del clan, trasmettendone il modello paterno.

Una realtà lucidamente descritta nel libro del giornalista Lirio Abbate “Fimmine ribelli” (2013) e analizzata nella mia tesi di laurea all’Università degli Studi di Parma.

Dalle testimonianze, dai racconti, dalle lettere di chi ha avuto il coraggio di schierarsi emerge un mondo in cui le donne devono “vivere per [i loro uomini], correre per loro, garantirgli una casa sicura, fargli dei figli, crescerli con la loro mentalità, devono prendere le botte e stare zitte, custodire i loro segreti e, quando gli uomini finiscono in galera, consolarli col pensiero che qualcuno li ama davvero e non si scorda di loro… Ma non devono alzare la testa”. E chi, meglio di Giuseppina Vitale – sorella di Leonardo, Michele e Vito Vitale, boss di Partinico – poteva descrivere la situazione a cui la donna è costretta?

Ma il ruolo delle donne, nel corso del tempo, si è evoluto in maniera consistente: se un tempo erano relegate a funzioni marginali, negli ultimi anni ricoprono ruoli al vertice dell’organizzazione, se i maschi di famiglia sono latitanti o detenuti. Un passo avanti in questa direzione l’aveva già registrato un ventennio addietro Giovanni Falcone, quando cercava di decifrare la trasformazione dei rapporti tra le donne e la mafia siciliana: “Sono entrate in rotta di collisione con il mondo chiuso, oscuro, tragico, ripiegato su se stesso e sempre sul chi vive di Cosa Nostra”, raccontava a Marcelle Padovani.

Serafina Battaglia, fu la prima donna di mafia a collaborare con la giustizia, riferendo le sue verità al giudice istruttore Cesare Terranova. Infranse il muro di omertà denunciando e perseguitando gli assassini del marito, Stefano Leale, e del figlio adottivo Salvatore. Voleva vendicarsi facendo giustizia come non si faceva mai: rivolgendosi alla giustizia. Fu una svolta storica, che la spinse nelle aule di giustizia di Palermo, di Perugia, di Catanzaro, di Bari e di Lecce dove segnò a dito i due boss responsabili degli omicidi, e in Cassazione inveì contro la mafia. Il marito e il figlio le raccontavano tutto e lei svelò tutto incastrando trenta mafiosi coinvolti in ventiquattro omicidi. E si lanciò in un ragionamento che ancor oggi spaventa gli uomini di mafia: “Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta, ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”.

Negli ultimi anni si è parlato sempre più spesso di rivoluzione al femminile, perché “nella società malavitosa madri, mogli e sorelle, assuefatte al silenzio e all’obbedienza, hanno cominciato ad alzare la testa, a dire ‘no’, per strappare i figli a un destino segnato da violenza, galera e morte”, spiega il giornalista de Il Corriere della Sera, Goffredo Buccini.

Proprio perché vincolate da sentimenti e da affetti, le donne tendono ad andare fino in fondo alle loro richieste di giustizia. “La violenza infatti è antica – scrive la sociologa tedesca Renate Siebert in un suo libro – nuovo invece è il coraggio e la consapevolezza delle donne che chiedono giustizia per sé. Perché degli uomini è il baratto, il pentimento in cambio di protezione, dello sconto sulla pena, certamente delle donne è la voglia di verità fine a se stessa”.

Ma Serafina Battaglia non è l’unica, più recentemente Maria Concetta Cacciola entra, nel maggio 2011, nel programma di protezione dello Stato e comincia a deporre sugli affiliati alla ‘ndrangheta della propria famiglia, rivelando affari e nascondigli. I genitori la convincono a ritrattare, ma lei non cede e il 20 agosto viene trovata morta in casa: aveva ingerito acido muriatico.

Lea Garofalo cresce in una famiglia di ‘ndrangheta, le uccidono il padre quando ha solo sette mesi e la nonna le insegna che “il sangue si lava con il sangue”. Decide di collaborare dal 2002 al 2009. Prelevata a forza a Milano, legata, torturata, è infine strangolata; il suo corpo viene bruciato.

Giuseppina Pesce viene arrestata nel 2010 nell’operazione All Inside, diretta contro boss e affiliati della cosca ‘ndranghetista dei Pesce di Rosarno, che ha coinvolto un centinaio di persone. Madre di tre figli, comincia a collaborare con la magistratura e la sua deposizione porta all’arresto della madre, della sorella, alla condanna di diversi esponenti del clan e alla ricostruzione del suo organigramma. Vive sotto protezione con i suoi figli. “Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere minorile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomini di ‘ndrangheta e saranno costrette a seguirli. Voglio provare a costruire un futuro diverso per loro”, dirà Giuseppina al pm Alessandra Cerreti con cui deciderà di deporre.

Per concludere, mi rifaccio alle parole della giornalista di Skytg24 e di Piazza Pulita, Manuela Iatì, che ho avuto occasione di intervistare per la mia tesi: “Proprio questo deve fare il giornalismo: tirare fuori, raccontare. In questo modo le mafie vanno combattute e forse un giorno saranno battute, attraverso la denuncia ma anche attraverso il racconto di modelli diversi, alternativi, ‘normali’ da offrire alle generazioni future”.