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“Sono transgender non-binary e voglio che mi chiamino col nome che ho scelto”

Pubblichiamo l’intervento di Storm, transgender non-binary, che ha condiviso con noi la sua storia. Se vuoi raccontarci le tue esperienze scrivici qua o inviaci un messaggio su Facebook

Transgender: una persona androgina cammina di spalle sulle dune del deserto

Mi chiamo Storm e dal 2014 ho preso piena consapevolezza di essere transgender non-binary.

Transgender non-binary sostanzialmente significa che non mi sento (e retrospettivamente non mi sono mai sentit*) donna, ma non mi sento nemmeno uomo. Per me uomo e donna sono due etichette che non mi descrivono. Non nego a nessuno il diritto di sentirle proprie né mi sento superiore a nessuno, semplicemente non fanno per me.

Prima di iniziare a parlare di me vorrei distinguere il sesso dal genere. Per convenzione chiamiamo “sesso” l’insieme di conformazione dei genitali alla nascita, dei cromosomi, delle gonadi (gli organi riproduttivi) e degli ormoni. Quando ci viene detto che un bimbo appena nato è maschio significa che ha un pene, dei testicoli, 46 cromosomi XY e che in lui prevarrà il testosterone. Ma nessuno tranne quel bambino potrà dirci se si sente tale e se crescendo si sentirà uomo o meno.

La differenza tra sesso e genere sta proprio in questo. Il sesso fornisce delle etichette che descrivono persone con caratteristiche simili e che aiutano a semplificare la meravigliosa diversità della biologia umana. Il genere riguarda come la persona singola vive la propria identità.

Il sesso non è binario: esistono femmine, maschi e intersessuali. Il genere non è binario: esistono uomini, donne e una galassia di altre identità, tra cui la mia. Per questo ho scelto di definirmi transgender non binary. Non perché mi senta migliore o divers* o perché voglia distinguermi dalla maggioranza ma perché le categorie uomo/donna da sole sono troppo riduttive per descrivere quello che sento di essere.

Non ha senso contestare un’identità perché anche se costringete una persona che si sente donna a dirvi che è un uomo, a vestirsi e comportarsi come un uomo (qualunque cosa significhi nella cultura in cui vi trovate) non riuscirete in nessun caso a cancellare come si sente. Lo stesso vale per le persone transgender e transessuali.

Il mio percorso non è stato immediato. Non sono una teenager. Ho cominciato a chiedere che mi si chiamasse Storm anziché Serena a 40 anni dopo un lungo percorso di riflessione su di me. Ho reso partecipe del mio percorso la cerchia degli amici fidati e successivamente la maggior parte delle persone con cui mi relazionavo in maniera significativa.

Non è andata come mi aspettavo almeno all’inizio. Più un’amicizia era importante e più avevamo condiviso gioie e dolori insieme e meno venivo pres* sul serio. Nello stesso anno ho cominciato una laurea magistrale all’università di Bologna, dove nessuno mi conosceva e la quasi totalità delle persone a cui mi presentavo come Storm continua a chiamarmi così senza tanti problemi.

Ora non mi aspetto la perfezione dalle persone con cui mi relaziono dal momento che io sono tutt’altro che perfett*. Posso capire le difficoltà a cambiare un’abitudine. Posso perfino capire chi sceglie di chiamarmi Serena perché non accetta che la mia identità abbia un qualche valore, anche se ovviamente non condivido il suo punto di vista e non mi interessa come amic*.

Ma non capisco chi dice di volermi bene e poi non prova nemmeno a chiamarmi Storm. Non ci vedevo una logica. Naturalmente non esiste solo la logica, ogni persona ha il suo modo di processare i cambiamenti anche a livello emotivo e sono cosciente che possa volerci del tempo, anche molto tempo.

Ho pensato di non aver comunicato le cose in maniera abbastanza chiara, quindi li ho presi ad uno ad uno e ho cercato di spiegare nella maniera a mio avviso più esaustiva perché stavo cambiando nome e quanto vivessi l’essere chiamat* Serena come una violenza e quanto questo nome non mi rappresentasse. Nella maggior parte dei casi la comunicazione sembra avere aiutato.

Da poco, però, ho ricevuto una lettera scritta con carta e penna come una volta (una rarità ormai), in cui una carissima amica a cui voglio un gran bene non fa che giustificarsi con mille voli pindarici per il fatto che vuole continuare a chiamarmi Serena.

Non la prendo ad esempio perché la voglio umiliare pubblicamente, le voglio bene così com’è e non cambia nulla. Se c’è stato un filo conduttore in questo “coming out” del nome però, sono state le giustificazioni e ogni volta ne esco esaust*.

In un mondo ideale vorrei non ricevere più giustificazioni. Chiunque non riesca, non possa, non voglia chiamarmi Storm avrà dei buoni motivi per comportarsi come fa, di cui io non sento alcun bisogno di venire a conoscenza.

Chi si giustifica mi ferisce tre volte. Una per il nome, una perché invece di prendersi le sue responsabilità butta su di me la sua incapacità di non ferirmi e una terza perché implicitamente sta dicendo che chiedo troppo.

In realtà chiedo solo che mi sia riconosciuta la dignità di persona attraverso l’uso corretto di un nome, e mi aspetto che chi non è in grado di fare una cosa così basilare abbia almeno la decenza di convivere da sol* con le proprie incongruenze invece di esigere la mia assistenza per un’assoluzione che non posso dare.

Non posso e non voglio giustificare la violenza in nessun modo. Neanche quando assume una forma apparentemente innocua come chiamare col nome sbagliato.

Storm