Simona Ruffini è una donna poliedrica. Scrittrice fin dalla tenera età, psicologa e criminologa, è soprattutto conosciuta per aver fatto riaprire, con l’avvocato Maccioni, le indagini sul delitto Pasolini (ne parla nel libro Nessuna Pietà per Pasolini, di recente ha anche aperto una petizione sul caso). Noi di Pasionaria, però, volevamo che ci parlasse del suo mestiere e soprattutto del suo impegno a sostegno delle donne che hanno subito atti di violenza.
Simona è una donna energica, dalla voce chiara e allegra, che ti mette subito a tuo agio. Ci conosciamo da tempo via Facebook, proprio per il nostro comune interesse su Pasolini, ma ci si mette veramente poco a capire che lei di interessi ne ha moltissimi altri. Soprattutto, Simona è mossa da un altissimo senso di giustizia e da una passione per la verità, tanto che mi dice che da bambina il suo sogno era di fare “la risolvi-ingiustizie”, un po’ come il personaggio di uno dei suoi romanzi, dal titolo Robin Hood.net. Di tutti i possibili percorsi attraverso cui inseguire il suo sogno, Simona ha scelto proprio la criminologia, ci spiega perché.
- Simona, tu sei attiva in diversi campi, ma sei principalmente nota come criminologa. Cosa ti ha portato a scegliere questa disciplina?
Mi occupo di diverse cose. Sono scrittrice, autrice, laureata in psicologia. Mi sono specializzata in criminologia perché ho sempre avuto la necessità di comprendere gli aspetti più bui dell’animo umano. E’ stato un percorso naturale, prima con la laurea, poi con i vari master e il dottorato. Sono profondamente convinta che questa professione non la si possa “inventare”, ma che debba essere il frutto di uno studio serio e accurato.
- Quando si pensa alla criminologia in Italia, vengono in mente più comunemente uomini, da Cesare Lombroso ad Aldo Semerari. Ci sono molte donne che praticano la tua professione nel nostro paese?
Conosco diverse colleghe che operano nel mio stesso settore: professoresse universitarie, esponenti delle forze dell’ordine, psicologhe, avvocati. A mio avviso l’errore che si compie è “fare di tutta un’erba un fascio”! Intendo dire che all’interno della criminologia ciascuno si specializza necessariamente in uno o più settori mantenendo però la propria formazione di base. Io opero nel campo del maltrattamento femminile, nel campo della psicologia della testimonianza come docente, sono esperta di cold case e consulente di parte.
- Hai mai incontrato ostacoli come donna nell’esercizio della tua professione?
Devo essere sincera. Credo che più che ostacoli nella mia professione specifica, le difficoltà che una donna incontra nel mondo del lavoro sono quelle rappresentate dagli stereotipi. La donna “in carriera” pare quasi anormale rispetto a un classico ma forse superato ruolo di “donna di casa”. E’ una questione oramai molto dibattuta.
Tuttavia la soluzione sta sempre dentro la donna. Se una donna desidera portare avanti una professione che la impegna molto, deve esserne consapevole e deve ricordare a se stessa che sta esprimendo le sue caratteristiche. Queste caratteristiche forse non coincidono con quelle che il mondo si aspetta da lei. Il punto è cosa lei si aspetta da se stessa?
- Uno dei temi dei quali ti occupi è la violenza sulle donne, alla quale hai dedicato anche la tua tesi di dottorato. Da quale prospettiva hai affrontato il problema?
Il lavoro svolto durante i 3 anni di Dottorato in Scienze Forensi all’Università di Tor Vergata per me è stato molto intenso e molto importante. Ho avuto la possibilità di studiare il tema del maltrattamento dal punto di vista scientifico, approfondendo teorie come quella della “Battered Woman Syndrome” o del “ciclo della violenza”. Poi ho potuto verificare queste teorie all’interno dei centri di accoglienza, dove ho conosciuto donne straordinarie con storie terribili alle spalle. Da li ho sviluppato la mia teoria che si basa su “la teoria dei giochi” e su “l’equilibrio di Nash”. In parole semplici si deve capire qual è il fattore chiave che tiene la donna imprigionata nella violenza. Non la si può paradossalmente “costringere ad uscire dalla violenza” se prima non si capisce perché ne è entrata. Questo a mio avviso restituisce potere alla donna.
Mi spiego: se una donna accetta di sottostare ad abusi perché per lei l’indipendenza economica è impossibile, non è utile farla sentire in colpa perché rimane con uomo violento. Si deve aiutarla a costruirsi un’indipendenza economica attraverso la quale si libererà. Se per una donna i figli sono l’aspetto chiave che le impediscono per paura di allontanarsi da un uomo violento, si dovrà accompagnarla in un percorso di tutela sua e dei figli. Se per una donna è la dipendenza a tenerla imprigionata, la si dovrà aiutare a capire perché crede di non potercela fare da sola. Compreso il suo “punto debole”, si potrà trasformarlo in un punto di forza.
Il non riuscire a uscire dal circolo della violenza parte da un senso di inadeguatezza, di non meritare niente. Se ci insegnassero che bisogna essere noi stessi per quello che siamo, che ognuno è speciale a modo suo, si creerebbero dei validi anticorpi.
- Da qualche tempo si parla molto della violenza di genere sui media italiani. Cosa pensi del modo in cui l’argomento viene trattato?
Sarò una voce fuori dal coro, ma non credo che parlare di violenza in modo esplicito e senza una finalità sia utile. Intendo dire che quando si tira fuori un argomento così delicato come una violenza, si devono dare anche chiavi interpretative, si deve discutere il fenomeno. Lasciare lo spettatore con la sensazione terrificante di vivere in un mondo in cui le donne sono prede di animali violenti senza scampo ingenera solo altro terrore. E’ importante parlare il più possibile di questo triste fenomeno, ma senza generare odio. Non vedo mai uomini intervistati che possano dare un sostegno e un messaggio di speranza e amore alle donne. Tutti gli uomini vengono dipinti come mostri. Non sono tutti così.
- Cosa possiamo fare noi tutte per arginare un fenomeno tristemente diffuso?
Umilmente dico che se avessi la soluzione non saremmo qui a parlarne. Tuttavia io posso dare la mia soluzione, quella che porto avanti da anni. C’è un detto che afferma “meglio prevenire che curare” e io lo condivido appieno. Quando ci si trova davanti ad una donna che subisce violenza da anni, siamo andate decisamente troppo oltre. In quel caso possiamo solo aiutarla a sopravvivere prima e ad uscirne poi, con tanta fatica e cicatrici. Se invece insegnassimo alle donne, fin dalla tenera età, che esseri straordinari sono, che compito hanno loro in questo mondo invece di volerle a tutti i costi uguali allo stereotipo più in voga, se ripetessimo loro che sono complete, giuste, sane, speciali, qualunque cosa decidano di fare, daremmo loro una consapevolezza che non le porterà mai a sottomettersi. Non sto certo parlando di femminismo e odio verso gli uomini, al contrario!
- Tu ti occupi di donne non solo nelle aule dei tribunali, ma anche col tuo progetto Donne di Luce. Ci spieghi di cosa si tratta?
E’ esattamente quello che intendevo. Donne di Luce è un progetto nato anni fa che oggi è diventato un sito. Le donne di luce sono le donne che ritrovano dentro di loro esattamente ciò che sono. Parlo delle credenze, degli stereotipi, dei sensi di colpa, del rapporto con l’uomo, di tutto ciò che erroneamente fa credere alle donne di non valere nulla se non sono “in un certo modo”. Mi piace pensare di aiutare le donne a ricordarsi di quanto sono speciali in modo che non cadano mai nella dipendenza psicologica e nella violenza.
In anteprima ti dico che sto creando anche un altro progetto che sarà presto on line. Si chiama “Progetto Persefone” ed è dedicato alle donne che purtroppo sono già andate troppo oltre. La violenza viene affrontata da un punto di vista legale, psicologico ma soprattutto archetipico. Come sai Persefone era la dea rapita da Ade e portata negli inferi. Una similitudine pertinente con una donna che scende nell’inferno della violenza. Qual è però l’aspetto positivo? Che come Persefone ha dovuto trovare in se stessa la forza per risalire alla luce, le donne devono essere consapevoli di rappresentare già la luce che le guida. E a loro volta possono diventare guide. Tutto sta nel ritrovare il proprio archetipo, cioè il proprio ruolo di donna. Qualunque esso sia. Bisogna parlare alle donne prima di arrivare alla violenza, ripartire dall’educazione e dalla consapevolezza di sé. Evitare di adeguarsi agli stereotipi. Dare alle donne un ‘sistema immunitario’.
- Cosa consiglieresti a una giovane donna che vorrebbe intraprendere la tua professione?
Studiare. Studiare. Studiare. Si ha a che fare, in questo mestiere, con la sofferenza umana. Mi è capitato di assistere un ragazzino in carcere per omicidio, di aiutare una famiglia che aveva perso un figlio per un tragico errore medico, di difendere una bambina presunta vittima di abusi sessuali, di aiutare persone a riaprire casi (i così detti cold case) tragici per trovare verità e sollievo. Non ci si improvvisa in queste cose. Si deve avere rispetto per la vita e il dolore di chi ci chiede aiuto.
Simona da poco ha anche pubblicato un ebook gratuito, “Caccia la fata e lascia uscire la donna” (scaricabile dal suo sito).