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Il problema del sex work non è il sesso, è il capitalismo

«Sostenere che la prostituzione sia un lavoro non equivale a dire che sia un buon lavoro. Il fatto è che non sono buoni neanche la maggior parte dei lavori alla portata di chi si ritrova a fare sex work». Traduzione di un estratto di "Revolting Prostitutes" di Juno Mac e Molly Smith

In questo periodo di pandemia la situazione precaria di chi fa sex work, il cui lavoro non è riconosciuto ma anzi criminalizzato, è emersa con forza in tutto il mondo.

In Italia, dopo la raccolta fondi dello scorso anno, il collettivo femminista di sex worker Ombre Rosse ha lanciato da poco una nuova iniziativa traducendo la fanzine Sex work e Colonialismo di Linda Porn, distribuita da Edizioni Minoritarie, il cui ricavato verrà donato al Sindicato Otras di Barcellona per sostenere le sex worker più marginalizzate, in particolare migranti, madri e in povertà.

Fanzine “Sex work e colonialismo” di Linda Porn

Persistono molti fraintendimenti su cosa esattamente si intenda per sex work e spesso le voci di lavoratrici e lavorator* del sesso non sono al centro di queste conversazioni.

Come dicono Juno Mac e Molly Smith, autrici di Revolting Prostitutes – The fight for sex workers’ rights, pubblicato da Verso nel 2020: «Chi non lo fa spesso pensa che vendere sesso debba essere un lavoro orribile, e molt* sex worker sono d’accordo. La differenza sta nel fatto che chi fa sex work pensa che il problema non si trovi nel sesso ma nel lavoro».

Se non ne sappiamo molto di sex work, e delle leggi che lo regolano, dalla prospettiva di chi lo fa possiamo leggere e educarci. Per questo ho tradotto in italiano un estratto di questo libro pubblicato dalla Boston Review, che riportiamo qui di seguito.

sex work revolting prostitutes
La copertina di “Revolting Prostitutes”, edito da Verso

La maggior parte delle persone che lavorano patisce ingiustizie e di norma non lavorerebbe senza paga. Con questo non vogliamo dire che lo status quo sia giusto o che dovremmo accettarlo perché così vanno le cose. Allo stesso tempo non riteniamo utile far finta che lavorare sia, in generale, una cosa meravigliosa. Alcune persone che lavorano hanno la fortuna di avere una buona paga, un lavoro soddisfacente e autonomia, ma la maggior parte di noi se la deve vedere, in un modo o nell’altro, con una dose di sfruttamento.

Ci preme cominciare da questo perché da sex worker che si battono per la decriminalizzazione abbiamo notato un problema critico nel dibattito pubblico. Quando si discute se rendere la prostituzione legale o meno i due lati del dibattito danno comunque per scontato che il lavoro sia fondamentalmente una cosa buona. Le divergenze arrivano quando si tratta di decidere se il lavoro sessuale sia un tipo di lavoro buono.

Entrambe le parti ritengono che il lavoro in generale sia qualcosa che dovrebbe essere privo di sfruttamento, dovrebbe piacere a chi lavora e procurare soddisfazione. Se qualcosa non corrisponde a queste caratteristiche allora è evidente che non può essere considerato un lavoro.

«Non è lavoro, è sfruttamento» è il ritornello.

Una politica femminista in Svezia una volta disse a un giornalista: «Non chiamarlo lavoro sessuale, è una cosa troppo brutta per essere un lavoro».

Il lavoro e le cose brutte sono poste come antitetiche: se la prostituzione è una cosa brutta allora non può essere un lavoro.

Dal nostro punto di vista è più produttivo partire da un’altra premessa: non ha senso dare per scontato che qualsiasi tipo di lavoro – incluso il lavoro sessuale – sia una cosa buona. Chi non lo fa spesso pensa che vendere sesso debba essere un lavoro orribile, e molt* sex worker sono d’accordo. La differenza sta nel fatto che chi fa sex work pensa che il problema non si trovi nel sesso ma nel lavoro.

Le femministe che sono contro la prostituzione e persino i politici spesso chiedono a noi sex worker se faremmo sesso con i nostri clienti se non ci pagassero. In questo modo il lavoro viene costituito come qualcosa che dà così tanta soddisfazione personale da volerlo fare gratis.

A ben vedere, questo modo di rapportarsi al lavoro fa in un certo modo parte dell’attivismo anti-prostituzione visto il numero di stage non retribuiti in certe organizzazioni. Equality Now, una ONG anti-prostituzione da milioni di dollari, nei suoi annunci specifica che i suoi stage sono non retribuiti e che non offrono supporto per alloggio e visti. L’organizzazione irlandese Ruhama offre diverse opportunità di volontariato che a ben vedere sono dei lavori veri e propri e che potrebbero essere pagati. Nel 2013 il consorzio di organizzazioni anti-prostituzione Turn Off The Light, in Irlanda, offriva uno stage a meno del salario minimo. Il risultato di questi stage non retribuiti, o retribuiti male, è che le donne in grado di costruirsi una carriera nel settore dei diritti delle donne, e quindi di fare lobbying rispetto alle leggi sulla prostituzione, sono donne che possono permettersi di fare stage a tempo pieno non pagati a New York e Londra.

Se così stanno le cose non c’è da stupirsi che il movimento contro la prostituzione abbia una visione, diciamo così, astratta della relazione tra lavoro e denaro.

Le femministe anti-prostituzione spesso non sono consapevoli della propria posizione privilegiata. Una nota femminista britannica una volta fece una battuta dicendo: «Mai pensato di fare carriera a suon di penetrazioni multiple? Più lo fai e meno guadagni, ma ognuno ha i suoi gusti!». La cosa divertente starebbe nel fatto che chi fa sex work crede, sbagliando, che quello che fa sia lavoro anche quando quel lavoro è sessista e discrimina in base all’età.

Se chi subisce sessismo e discriminazione basata sull’età fosse escluso dalla categoria di “lavoratore”, allora la maggior parte delle donne di una certa età sarebbe esclusa: il divario retributivo di genere infatti peggiora con l’avanzare dell’età.

Se l’unico lavoratore o lavoratrice “vero”, degno di questo nome, è la persona che non soffre discriminazioni e sfruttamento sul lavoro, allora tutte le lotte per i diritti sul lavoro diventano superflue.

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Alla lista degli alleati non pervenuti possiamo anche aggiungere la maggior parte di chi ci governa. Tempo fa, come parte di una piccola delegazione di sex worker, abbiamo incontrato una ministra del governo scozzese che voleva capire per quale motivo avessimo iniziato a prostituirci. Una madre single con diversi figli raccontò di aver iniziato per mantenere la famiglia; un’altra donna, una migrante senza permesso di soggiorno, spiegò che vista la sua situazione la prostituzione era uno dei pochi modi che aveva di guadagnarsi da vivere; una terza donna raccontò di come al momento di fare coming out come trans aveva perso il lavoro. Un uomo parlò dell’omofobia di cui era stato vittima facendo altri lavori.

La ministra non si lasciò impressionare e osservò come tutti avessimo iniziato a prostituirci per guadagnare, non solo sembrava incredula ma il suo tono suggeriva che vendere sesso per avere un introito le sembrava una cosa terribilmente venale.

Ci sono persone che vendono sesso per soldi. Questo semplice fatto viene spesso ignorato o dimenticato. Per molti risulta inconcepibile che qualcuno faccia una cosa considerata tanto strana e terribile per le stesse ragioni mondane e pratiche che sono parte della vita di tutti.

A volte il fatto che i soldi siano una parte cruciale della faccenda viene nascosto di proposito, per fini politici. Quando un politico di destra fa finta che la prostituzione non sia una questione di reddito e sopravvivenza ma di criminalità organizzata può fare a meno di rispondere a domande scomode sulla relazione tra prostituzione, povertà e scelte politiche. Lo stesso approccio consente di associare misure anti prostituzione con la retorica populista della “tolleranza zero” al crimine.

Minimizzare le dimensioni pratiche e economiche della prostituzione ha anche la funzione di portare acqua al mulino delle femministe anti-prostituzione. Un esempio: Catherine MacKinnon scrive: «Se non ci fosse chi compra allora non ci sarebbe chi vende, altrimenti detti trafficanti». Quando MacKinnon fa di tutta l’erba un fascio, mettendo insieme le persone che vendono sesso con “i trafficanti”, oscura il fatto che chi vende sesso lo fa per bisogno economico, un bisogno a cui non si può rispondere tentando di abolire la prostituzione con il codice penale.

Dopo tutto, se ci dimentichiamo che le persone battono la strada perché hanno bisogno di soldi possiamo evitare di pensare a cos’altro dovranno fare per guadagnarsi da vivere se non possono prostituirsi, o alle conseguenze per la loro sicurezza. Rimuovi la questione del denaro dalla discussione e chi fa sex work sembra una persona balorda o traumatizzata. L’argomento, implicito o esplicito, è che chi fa sex work non agisce in modo razionale ma è vittima di traumi subiti durante l’infanzia.

L’attivista anti-prostituzione Kat Banyard dice, per esempio, che «ha senso» partire dal presupposto che chi fa sex work abbia subito abusi sessuali perché «un effetto comune degli abusi sessuali subiti nell’infanzia è che si fa fatica ad essere assertivi». Chi fa sex work rifiuta questi tentativi di patologizzare le nostre vite.

Come spiega Lori Adorable «il punto non è una sorta di danno permanente o l’impulso a rivivere un trauma, il punto è che spesso chi ha subito abusi sessuali da bambino non può contare sul supporto della famiglia«. In altre parole chi è scappato da una famiglia abusiva ha un bisogno impellente di evitare di tornarci e proprio per questo può mettersi a vendere sesso.

Il punto è il bisogno materiale, non una patologia.

Secondo una ricerca del ministero dell’interno della Gran Bretagna «la necessità economica è il motivo principale per cui le donne iniziano a prostituirsi». La ricercatrice Julia Laite scrive: «Diversi studi del tardo XIX secolo hanno accertato che almeno la metà delle prostitute in Gran Bretagna erano state domestiche e che quell’impiego era per loro così intollerabile che l’avevano lasciato di proposito». Laite cita una prostituta degli anni ‘20 che chiese a un poliziotto che la stava arrestando: «Che cosa mi dai se smetto? Un lavoro in una lavanderia a due sterline a settimana, quando ne posso guadagnare facilmente 20».

Se osserviamo le ragioni per cui le persone vendono sesso attraverso il prisma della necessità economica è chiaro che queste scelte non siano aberranti o umilianti ma una strategia di sopravvivenza razionale in un mondo di merda.

Le persone LGBTQ sono sovra rappresentate nel lavoro sessuale. Discriminazioni, rifiuto e violenza, sia a casa che nella società, le rendono più vulnerabili e precarie. La prostituzione risulta una delle poche via di uscita dalla povertà. Le donne trans in particolare spesso non riescono a trovare un lavoro decente. Abbandono scolastico, mancanza di supporto da parte della famiglia e mancanza di accesso a prestazioni sanitarie (incluse terapie di affermazione del genere) sono tutti fattori per cui si trovano a rischio di povertà, malattia e impossibilità di avere una situazione abitativa stabile.

La criminalizzazione non impedisce alle persone di fare sex work ma lo rende più pericoloso.

Non c’è molto che lo Stato possa fare per impedire fisicamente a una persona di vendere sesso ed è così che la prostituzione rappresenta una solida opzione di sopravvivenza per chi non ha nulla. Non ci sono praticamente pre requisiti per scendere in strada e aspettare un cliente.

Prostituirsi per sopravvivere può essere pericoloso e fare paura ma se le altre opzioni a tua disposizione sono peggio (morire di fame, perdere la casa, entrare in crisi di astinenza) rappresenta un’ultima spiaggia per praticamente chiunque sia in una situazione di estrema necessità. È per questo motivo che la prostituzione continua imperterrita nonostante tutto.

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Protesta davanti al parlamento a Londra, 2018 | Foto di juno mac

Le critiche che alcune attiviste anti-prostituzione fanno all’industria del sesso sono in sostituzione di una più ampia critica al capitalismo. Julie Bindel si chiede «perché la sinistra è a favore del libero mercato solo quando si tratta della compravendita dei corpi delle donne?». Farsi questa domanda significa non capire, o non voler capire, la questione: quello per cui la sinistra si batte sono i diritti sul lavoro per ribilanciare il divario di potere tra padroni e lavoratori. In un sistema capitalistico quando si criminalizza qualcosa le dinamiche del capitale non cessano di esistere.

Quando ci viene chiesto di scegliere, in un contesto capitalistico, se criminalizzare o decriminalizzare il sex work, non ci viene offerto uno scenario in cui le regole del libero mercato non la facciano da padrone. In realtà, quando si criminalizza un mercato le dinamiche del capitalismo si fanno più intense. Se criminalizziamo la compravendita di sesso i diritti di chi ci lavora non possono esistere, se invece la decriminalizziamo, chi vende sesso può godere degli stessi diritti che proteggono i lavoratori in altri settori legali.

Sostenere che la prostituzione sia un lavoro non equivale a dire che sia un buon lavoro.

Il fatto è che non sono buoni neanche la maggior parte dei lavori alla portata di chi si ritrova a fare sex work. Persone con pochissimo potere vendono o barattano sesso, le persone a cui tocca fare i lavori peggiori.

Proprio per questo le attiviste anti-prostituzione dovrebbero prendere sul serio il fatto che fare sex work sia un modo per sopravvivere e ottenere quello di cui si ha bisogno. Invece, lo ignorano senza remore e ci vengono a dire che perdere un brutto lavoro non è chissà che problema. Perdere il lavoro è il modo di cambiare la società, così ci vengono a dire.

Solo perché un lavoro non è buono non vuol dire che non esista.

Quando diciamo “sex work is work”, il lavoro sessuale è lavoro, stiamo dicendo che abbiamo dei diritti. Non stiamo dicendo che sia un lavoro bello e divertente, o senza rischi, non diciamo nemmeno che abbia un valore intrinseco. Allo stesso tempo, quando parliamo di sex work come lavoro con diritti associati non significa che approviamo acriticamente il concetto stesso di lavoro. Non stiamo promuovendo il capitalismo o un’industria del sesso più grande e più redditizia.

Come spiega l’attivista Yuli Perez, dell’Organizzazione nazionale per l’emancipazione delle donne in uno stato di prostituzione in Bolivia, «la gente crede che la nostra organizzazione voglia espandere la prostituzione in Bolivia. In realtà vogliamo esattamente l’opposto. Il nostro mondo ideale è un mondo dove non c’è posto per la disperazione economica che costringe le donne a questa situazione».

Non tocca a chi fa sex work chiedere scusa per la prostituzione. Chi fa sex work non dovrebbe avere l’obbligo di difendere l’industria del sesso per poter dire che ci meritiamo la possibilità di guadagnarci da vivere senza essere punite e puniti. Le persone non dovrebbero essere obbligate a dimostrare che il loro lavoro ha un valore intrinseco per la società per esigere condizioni di lavoro sicure.

Una società migliore, una società in cui più tipi di lavoro sono valorizzati e le risorse sono distribuite sulla base del bisogno non si può ottenere attraverso la criminalizzazione. E nemmeno considerando i bisogni materiali e le strategie di sopravvivenza delle persone marginalizzate come cose di poco conto, triviali. Chi fa sex work chiede di essere considerat* una persona che lavora, anche se ha problemi sul lavoro o addirittura lo odia. Non deve piacerti il tuo lavoro per volerlo tenere.