fbpx

Selezione della razza: la storia delle isterectomie forzate negli Stati Uniti

Ha fatto notizia la denuncia delle isterectomie eseguite senza consenso su detenute migranti di origine messicana. Ma non si tratta di una novità: il controllo delle nascite negli Usa è sempre stato uno strumento usato contro le donne, in particolare quelle razzializzate e povere che ora chiedono giustizia riproduttiva

isterectomie forzate
Illustrazione di Rachel Wada

Le condizioni di sovraffollamento e insalubrità delle carceri sono ben note, tuttavia della situazione delle persone detenute si è parlato molto poco dallo scoppio dell’emergenza Covid ad oggi. Ancora minori sono le notizie provenienti dai centri di detenzione per persone migranti.

Sulle donne detenute poi – che rappresentano fra il 2 e il 10% della popolazione incarcerata nel mondo – i dati e le informazioni sono quasi inesistenti, eppure è proprio in questi contesti che esse corrono i maggiori rischi: l’esposizione alla violenza (anche istituzionale) di genere è aumentata durante la pandemia a causa della diminuzione della sorveglianza nelle carceri. L’impossibilità di ricevere visite, inoltre, in alcuni contesti ha significato anche “mancanza di cibo, medicine, abiti e prodotti per l’igiene personale e per il ciclo mestruale”.

Una notizia però nelle scorse settimane ha squarciato il velo finendo sulle prime pagine di molti giornali: si tratta delle isterectomie forzate eseguite senza consenso su donne di origine messicana negli Stati Uniti a Ocille, nel sud della Georgia, presso uno dei centri di detenzione per persone migranti dell’ICE (l’US Immigration and Customs Enforcement) gestito dalla società privata LaSalle Corrections.

La denuncia – sporta da Dawn Wooten, infermiera che ha lavorato nel centro negli ultimi 3 anni, intervistata da The Intercept – è confermata anche da un’altra operatrice sanitaria e indica il ginecologo, chiamato “il collezionista di uteri”, come il responsabile dell’imposizione delle operazioni a donne inconsapevoli di quel che stava accadendo loro, spesso per colpa della barriera linguistica.

Anche altre detenute del centro hanno confermato la versione:

“Quando ho incontrato tutte queste donne che avevano subito interventi chirurgici ho pensato che fosse come un campo di concentramento sperimentale. Era come se stessero sperimentando sui nostri corpi” ha dichiarato una di loro.

Manifestazione all’esterno dell’Irwin county detention center a Ocilla, Georgia. Photograph: John Arthur Brown/Zuma/Rex/Shutterstock

Sterilizzazioni forzate, eugenetica e femminismo bianco negli USA

La sterilizzazione forzata delle donne razzializzate è un fenomeno che a lungo è stato presente negli Stati Uniti fino alla fine degli anni Duemila, intersecandosi non solo con le politiche razziste ed eugenetiche, ma anche con le campagne per il controllo delle nascite del movimento bianco femminista e delle suffragiste.

Alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti comincia a essere evidente il calo delle nascite dei bambini bianchi: le donne bianche borghesi infatti in quel periodo si erano fortemente mobilitate rivendicando il diritto alla maternità consapevole e, non essendo ancora stato introdotto ufficialmente nessun metodo contraccettivo, avevano fatto ricorso all’astinenza dai rapporti sessuali.

La presunta o effettiva superiore natalità di bambini razzializzati aveva dato il via alle teorie del “suicidio della razza” tanto che nel 1905 Roosevelt dichiarava che “la purezza della razza” dovesse “essere salvaguardata”.

Il controllo delle nascite diventava così sempre meno un mezzo di autodeterminazione femminile e sempre più un sistema classista, razzista, abilista e sessista volto a evitare il proliferare delle classi “inferiori” e razzializzate, un modo per controllare i corpi delle persone nere, immigrate, disabili e povere che avevano il “dovere morale di ridurre la grandezza delle loro famiglie”.

«Ciò che veniva rivendicato come un “diritto” dalle privilegiate finì per essere interpretato come un “dovere” per le povere», scrive Angela Davis in Donne, razza e classe.

Proprio all’inizio del Novecento, infatti, mentre le teorie eugenetiche cominciavano ad acquisire popolarità, esponenti di spicco per la nascita del movimento femminista bianco, come Elizabeth Cady Stanton e Susan B. Anthony, assumevano posizioni apertamente razziste.

In particolare Margaret Sanger, inizialmente promotrice di una campagna progressista sul controllo delle nascite e alleata con i movimenti operai, nel 1919 sul giornale dell’American Birth Control League scrive che “l’obiettivo principale” è quello di avere “più bambini da chi è adatto, meno da chi è inadatto”.

Tra il 1907 e il 1932, ventisei stati avevano ratificato leggi sulla sterilizzazione e nel 1939 era entrato in vigore il “Negro Project”, una strategia razzista di controllo della popolazione, a cura della Birth Control Federation of America.

Ancora negli anni Settanta del Novecento i casi di sterilizzazioni forzate emergevano nelle cronache. Esempi sono il caso delle sorelle Minnie Lee e Mary Alice Relf di 12 e 14 anni sterilizzate nel 1973 senza consenso dal Montgomery Community Action Committee in Alabama. O quello di Nial Ruth Vox, minacciata dai funzionari pubblici di togliere il sussidio alla sua famiglia se non si fosse sottoposta alla sterilizzazione chirurgica.

Proprio in quegli anni la sterilizzazione chirurgica, finanziata dal Department of Health, Education and Welfare, era ancora gratuita. Al contrario gli aborti – i cui finanziamenti federali furono sospesi (tranne per i casi di stupro, rischio di morte o malattia grave) a partire dal 1977 con l’approvazione dell’emendamento Hyde al Congresso – e i contraccettivi ormonali (pillola anticoncezionale e dispositivi intrauterini) erano estremamente costosi.

Ciò spinse sempre più donne povere, per la maggior parte nere, portoricane, chicane e native americane a optare, spesso inconsapevolmente, per l’infertilità permanente, il sistema di controllo delle nascite più comune in quegli anni.

Nonostante nel 1974 fossero state emesse dal dipartimento della salute delle linee guida per prevenire la sterilizzazione involontaria, secondo il Reproductive Freedom Project dell’American Civil Liberties Union, il 40% degli ospedali ignorava la normativa.

Manifestazione organizzata da “The Committee to Stop Forced Sterilization” nel 1974 davanti al Los Angeles County USC Medical Center

Si stima che le persone sterilizzate in modo coatto negli Stati Uniti dal 1930 al 1970 siano 65mila di cui 40mila donne, per la maggioranza donne nere (il 65% in North Carolina nel 1964), native americane (circa il 25%) e più del 35% delle donne portoricane.

Alle donne le isterectomie venivano effettuate mentre praticavano gli aborti, a seguito dei parti, convincendole di avere malattie incurabili o proponendo la sterilizzazione come una soluzione contraccettiva. Furono crimini lucidi e determinati, supportati dai governi che si succedettero per decenni, finanziati da istituzioni private come la Rockfeller Foundation e propagandati attraverso le teorie razziste pseudo-scientifiche sulla superiorità della razza bianca.

Scrive Dorothy Roberts in Killing the Black Body: La razza, la riproduzione e il significato della libertà: «Mentre i padroni degli schiavi costringevano le donne nere a generare figli per profitto (per ottenere altri schiavi gratis), le attività politiche più recenti hanno cercato di ridurre la fertilità delle donne nere. Entrambi – padroni e politiche – condividono un tema comune: la capacità riproduttiva delle donne nere deve essere regolata/controllata al fine di raggiungere determinati obiettivi sociali».

Ancora oggi c’è un’ossessione verso la superiore natalità delle persone razzializzate rispetto alla classe dominante bianca statunitense (ma anche europea): si pensi alle fantasticherie di complotto – come il piano Kalergi, un piano d’incentivazione dell’immigrazione africana e asiatica verso l’Europa al fine di rimpiazzarne le popolazioni attraverso una sostituzione etnica – propagandate dai suprematisti bianchi attraverso i movimenti razzisti e nazionalisti al fine di mantenere il loro “white privilege” e contrastare i fenomeni migratori.

 

Dal controllo delle nascite alla giustizia riproduttiva

Ancora oggi il femminismo bianco e il movimento pro-choice, guidati e rappresentanti delle donne in salute, bianche e di classe media, nella loro retorica riguardante i diritti riproduttivi trascurano troppo spesso le discriminazioni razziste, classiste, sessiste e abiliste che le donne razzializzate, trans, povere e disabili hanno subito e continuano a subire in relazione al controllo delle nascite.

Per questo nel 1994 le Sister Song (Women of Color Reproductive Justice Collective) coniano il termine “giustizia riproduttiva”, definita come «the human right to maintain personal bodily autonomy, have children, not have children, and parent the children we have in safe and sustainable communities».

La legalizzazione dell’aborto, secondo il collettivo, è solo un traguardo per l’autodeterminazione delle donne sul controllo delle nascite e la pianificazione familiare: le donne povere, infatti, continuerebbero a non averne accesso a causa dei costi, della lontananza dalle cliniche, dei periodi di riflessione obbligatoria.

Anche portare a termine una gravidanza spesso non è una scelta che si può fare liberamente a causa dell’assenza di programmi di welfare di sostegno per le famiglie povere e di programmi di assistenza di qualità durante la gestazione. Manca inoltre un’assistenza sanitaria che riguardi la sfera sessuale e riproduttiva di qualità, anti-razzista, senza stigma verso le persone trans, non-binary e gender non conforming, mancano progetti educativi e di informazione sulla salute riproduttiva, dalla contraccezione al parto, privi di taboo e di stereotipi.

Serve quindi un “sistema sanitario gratuito, universale e non orientato al profitto, assieme alla fine di pratiche eugenetiche e razziste nella professione medica” che permetta l’accesso a tutte le persone a prescindere da reddito, provenienza geografica o contesto educativo.