L’uso sempre maggiore della fotografia come mezzo espressivo ha portato negli ultimi quarant’anni alla produzione di un numero sempre maggiore di autoritratti di artisti. Pur non essendo l’arte di Sarah Lucas prettamente incentrata sulla sua persona, dai primi anni ’90 l’artista produce una serie di autoritratti fotografici e Self Portrait with Fried Eggs (Autoritratto con uova fritte) del 1996 è uno di questi.
Nella fotografia vediamo l’artista seduta in poltrona, lo sguardo sfrontato rivolto in camera, uno spazio anonimo delimitato e allo stesso tempo deformato dal pavimento a scacchi di “pierfranceschiana” memoria. Tutto in lei suggerisce un aspetto maschile, la posa, i vestiti, le sigarette gettate casualmente sul pavimento. Poi l’elemento imprevisto: due uova fritte appoggiate sulla maglietta simulano un paio di seni nudi.
Sarah Lucas… guardi una sua opera, di primo acchito sorridi cogliendo l’ironia ma poi ti accorgi che qualcosa ha toccato un nervo scoperto che non sapevi neanche di possedere.
Questa immagine, come tutto il suo lavoro, è piena di contraddizioni. Lucas contraddice le stereotipiche rappresentazioni di genere presentandosi come un’artista femmina ma dall’apparenza mascolina, contraddice le stereotipiche rappresentazioni sessuali dando corpo al linguaggio gergale che sostituisce, in una sorta di degradazione e oggettificazione, i genitali e le zone erogene del corpo con il cibo. Così il seno diventa un paio di uova fritte o meloni, il pene un cetriolo, la vagina un kebab e via dicendo.
Ma al di là di tutte le “interferenze” esterne, quello che alla fine prevale è lei, Sarah, che col suo sguardo diretto e deciso ci comunica la sua vera essenza, quella di una sprezzante e ribelle femminilità.
Sarah Lucas, nata nel 1962 e diplomata al Goldsmiths College nel 1987, fa parte (insieme a Damien Hirst, Gary Hume, Angus Fairhurst, Gillian Wearing, Sam Taylor-Wood, per citarne alcuni) di quella generazione di artisti inglesi conosciuti come Young British Artists, venuta alla ribalta della scena artistica durante gli anni ’90 del secolo scorso.
Per la sua tendenza a prendere parte a feste selvagge e a fare un’arte provocatoria e scioccante, Sarah Lucas fu definita l’enfant terrible dell’arte contemporanea. L’enfant però è cresciuta, come hanno dimostrato la recente retrospettiva che le ha dedicato la Whitechapel Gallery (2013) e la nomina a rappresentate del Regno Unito alla Biennale di Venezia del 2015. E’ diventata una delle figure più importanti della sua generazione, “una scultrice dalla formidabile inventiva” capace di “bucare le convenzioni” (come scrive Andrea Rose, responsabile della sezione Arti visive del British Council).
Lucas unisce femminismo, surrealismo, situazionismo e una certa “englishness”. Usa oggetti trovati (tavoli, materassi, sedie, calze di nylon, secchi, vegetali, pesci…) che combina in modo inaspettato e trasforma in crude rappresentazioni di corpi umani, anzi in agglomerati di parti di corpi, come in Two Fried Eggs and a Kebab (1992), Au Naturel (1994), Bitch (1995), Bunny Gets Snookered #1 (1997). Affronta gli stereotipi e i tabù attorno al sesso, i generi, il corpo umano da un punto di vista morboso, osceno, misogino, repellente e squallido. Non manca neanche un costante riferimento alla morte, perché – si sa – dove c’è eros c’è sempre thanatos.
In conclusione, volendo sintetizzare, potremmo dire che al cuore dello “sgarbato” lavoro di Sarah Lucas giace un sofisticato mix di eufemismi sconci, verità represse, piaceri erotici espressi attraverso le infinite possibilità scultoree di corpi sessuati.