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Il ritorno delle brùscias: femminismo decoloniale in Sardegna

In Sardegna le brùscias erano donne definite streghe perché libere, scomode e custodi di poteri dimenticati. Le giovani donne sarde, grazie al femminismo postcoloniale, si stanno riappropriando della cultura, della lingua e della storia sarda, per smettere di essere considerate marginali e per strappare all’Italia le rappresentazioni retrograde dell’Isola

Articolo pubblicato originariamente su menelique magazine #5. L’autrice parteciperà al dibattito in diretta su FEMMINISMI E DECOLONIALITÀ IN ITALIA che si terrà sulla pagina Facebook di Pasionaria.it il 5 ottobre 2021 alle ore 19. L’evento è a questo link

femminismo decoloniale Sardegna
Dettaglio dell’illustrazione di Moju Manuli per Menelique magazine #5 | Diritti riservati

Quando sono andata via dalla Sardegna volevo solo scappare.

Avevo 23 anni, una disperata fame di vita e la convinzione implacabile che il mio futuro potesse essere solo altrove. Ambizioni e speranze erano tante e tali da tracimare i confini di un’isola lontana da tutto e da tutti, chiusa su se stessa, povera di risorse e opportunità. Era questa l’idea della mia terra con cui ero cresciuta a Cagliari, tra umidità, fenicotteri e quella sorda e costante frustrazione del sentirsi ai margini.

Se il punto di riferimento è l’Italia, la Sardegna non può esserne che l’estrema periferia. Non l’unica, ma sicuramente quella più distante, sia da un punto di vista geografico che culturale.

L’isola è quasi assente dai libri di scuola: un accenno veloce alla civiltà nuragica e poi sempre, fatalmente, spazio di conquista, di Cartagine, di Roma, delle repubbliche marinare, di diversi regni spagnoli e infine bottino di guerra ceduto ai Savoia, che avrebbero preferito di gran lunga depredare la Sicilia¹. Le sarde e i sardi imparano così, fin da bambini, che la loro storia è in funzione di quella di qualcun altro. Che le cose importanti accadono da un’altra parte, fuori.

Un fuori che da coordinata geografica diventa coordinata della definizione di sé.

Lo chiamiamo Continente. In Continente si trova lavoro. In Continente si possono realizzare i propri sogni e avere successo. In Continente è dove accadono le cose.

Questa retorica resiste nel nostro immaginario almeno dai tempi della prima emigrazione di massa del popolo sardo nel secondo dopoguerra, che, come scrive lo storico Omar Onnis, non fu ostacolata ma ‹incentivata, giustificata, presentata come inevitabile›, come ‹un giusto prezzo da pagare alla modernizzazione e all’integrazione dell’isola nell’ambito italiano›.

Questo complesso di inferiorità latente è, per le sarde e i sardi, in costante tensione con il sentirsi parte di una comunità fiera di essere altro. Il senso della nostra alterità, però, lo acquisiamo in modo frammentario e spesso appannato dal folklore a uso e consumo turistico.

Certo, a scuola ci portano in gita ai nuraghi e alle domus de Janas, le ‹case delle fate› preistoriche scavate nella roccia; il 28 aprile facciamo vacanza per Sa Die de Sa Sardigna in ricordo della sommossa cagliaritana che riuscì a cacciare per qualche tempo vicerè e funzionari sabaudi dall’isola; ogni tanto sentiamo un’insegnante o una figura istituzionale snocciolare Eleonora d’Arborea, Antonio Gramsci, Emilio Lussu e Grazia Deledda come grani del rosario dell’orgoglio sardo, ma che strada abbiamo percorso fin qua, cosa abbiamo perso e imparato una colonizzazione dopo l’altra, non ce lo racconta nessuno.

Per scoprirlo dobbiamo avere la voglia di metterci a studiare per conto nostro, attraversare le storie delle nostre famiglie, ricomporre a poco a poco i pezzi del nostro mosaico identitario.

Io ho sentito la necessità di farlo solo dopo essere emigrata.

Le narrazioni dei continentali sulla Sardegna erano uno specchio che rimandava un’immagine caricaturale della mia terra. Non sapevano decantarne che le spiagge e il cibo. I pochissimi che mi raccontavano di essersi allontanati dalla costa per una tappa in Barbagia, sui monti, si sentivano esploratori di un luogo rurale e misterioso, dimora di pastori e banditi. Per gli italiani, generalmente, non siamo altro che questo, una meta turistica usa e getta che oltre al bel paesaggio offre nel pacchetto anche un fremito di esotico folklore.

Mare stupendo, porchetto arrosto, pecore, sequestri: la narrazione coloniale di un’isola selvaggia ormai addomesticata. L’avevo sentita tante di quelle volte da averla fatta mia e iniziava a starmi stretta e fastidiosa come un abito cucito male. Questa Sardegna non era reale. Ma allora cos’era? Qual era la mia Sardegna?

Rompere lo specchio è stato doloroso, ogni scheggia una ferita di generazioni.

Come quella, ancora aperta, di non saper parlare la mia lingua. I miei genitori, figli di una città uscita prostrata dal secondo conflitto mondiale, sono stati educati in italiano a casa e a scuola, dove chi si ostinava a usare il sardo veniva punito. Con l’avvento della televisione la colonizzazione culturale riuscì in pochi anni a far identificare la nostra lingua come il mezzo di espressione delle classi sociali meno scolarizzate e meno emancipate. Era l’italiano, idioma straniero per i nostri nonni, a garantire il biglietto verso la modernità e il progresso.

Iscrivermi a un corso di sardo è stata una delle prime cose che ho fatto dopo essere tornata al di qua del mare con il bagaglio di undici anni trascorsi tra Roma e l’Emilia.

Tentando di dipanare la matassa della mia identità avevo tracciato un cammino che mi aveva inevitabilmente riportato da dove ero partita, l’altra parte di quell’orizzonte che non volevo sentire più confine.

Avvertivo il bisogno di affondare di nuovo le mani nella mia terra, il desiderio vorace di nutrirmi di tutte le storie, i paesaggi e i saperi che mi ero lasciata alle spalle troppo in fretta.

Dovevo ancora capire come calibrare la bussola ma percepivo che questo viaggio personale a un certo punto del percorso si faceva collettivo: incontrando il femminismo sardo ho capito che non avrei dovuto più percorrere quella strada da sola.

La mia ricerca di radici la ritrovavo nelle compagne, quelle rimaste, quelle partite, quelle andate e tornate, per cui questa tensione inesauribile tra il dentro e il fuori è una frustrazione che diventa opportunità per ripensarsi nel senso più profondo del paradigma politico: persone in relazione all’interno di una comunità sociale che si porta dietro i suoi strappi e le sue contraddizioni.

Per questo la lotta di autodeterminazione femminista non può scindersi da quella per l’autodeterminazione di un popolo che ha bisogno di affrontare il suo essere colonia, tracciando nuovi significati con cui dirsi oltre lo sguardo coloniale che ci vede solo come una cartolina e come, pare, ci definisse l’imperatore Carlo V, ‹pocos, locos y mal unidos›, pochi, matti e divisi.

Rimettere insieme i frammenti e ricostruire le nostre genealogie di donne e soggettività non conformi si fa così pratica imprescindibile per partire da noi e tracciare nuovi significati di sé.

femminismo decoloniale sardegna
L’articolo originale sulle pagine di Menelique magazine #5

È seguendo i fili tesi tra la Sardegna e il Continente dalle nostre ave che ho compreso di essere l’erede di generazioni di tzeracche², ragazze che si imbarcavano verso Roma, Torino, Genova, Milano per fuggire dalla miseria e fare le serve nelle case dei signori. Partivano giovanissime e sole, non come mogli e madri, ma come donne per la prima volta indipendenti che aiutavano la famiglia con le loro rimesse tanto quanto i fratelli emigrati a cercare fortuna nelle miniere belghe e nelle fabbriche del Nord Italia.

Un esodo femminile autonomo conosciuto poco e male, pur avendo avuto un peso talmente determinante da far sostenere alla geografa Anna Leone che ‹in nessun’altra regione meridionale si riscontra una vasta partecipazione femminile ai movimenti migratori come in quella sarda›.

Nella sua analisi Leone riporta che tra il 1953 e il 1973 circa la metà della popolazione sarda migrante era donna e sottolinea come ‹ovunque e in ogni campo disciplinare la presenza femminile è stata spesso sottovalutata o analizzata in funzione della presenza maschile, in conformità a una stereotipa immagine della figura femminile ‘dipendente’ e ‘improduttiva’›³.

Niente di più falso. Basta raccogliere i ricordi delle nostre nonne per sapere che nella società tradizionale sarda, al lavoro riproduttivo le donne avevano sempre affiancato quello produttivo che si svolgeva nell’ambiente domestico agricolo e pastorale: la produzione del pane e dei dolci, la tessitura, l’allevamento degli animali da cortile, la conservazione degli alimenti erano alcune delle attività indispensabili a appannaggio esclusivamente femminile.

La loro progressiva meccanizzazione, controllata dagli uomini, aveva allontanato le sarde non solo dal lavoro ma anche dal fondamentale ruolo che questi compiti gli garantivano all’interno della comunità, restringendo la loro funzione sociale alla sola cura della famiglia.

Diversamente da quanto accade nel resto del Mezzogiorno, ‹le giovani donne sarde sembrano accettare solo per un periodo molto limitato questo nuovo modello familiare›, rileva lo studioso Fabrizio Carmignani, raccontando come in Sardegna le madri degli anni ’60 che si erano ritrovate tagliate fuori dal mercato del lavoro spingessero le figlie a riscattare la loro autonomia attraverso l’istruzione⁴.

Le ragazze non partono più solo come serve ma anche come studentesse che si specializzano per diventare insegnanti, impiegate, infermiere e possono arrivare al matrimonio mantenendo un’indipendenza economica.

Il sentire popolare attribuisce questa forte spinta emancipatoria delle donne sarde a un fantomatico passato matriarcale che, pur non essendo mai esistito, ha assunto sull’isola i caratteri del mito, sorretto dal fascino del lungo culto della Dea Madre in epoca preistorica e di figure leggendarie come le giudicesse, vere e proprie regine che però furono solo quattro nel corso dei seicento anni, tra il IX e il XV secolo, in cui la Sardegna era divisa in giudicati e arrivarono al potere esclusivamente come reggenti del consorte o dei figli.

Provare a ricucire la distanza tra le generazioni significa per le femministe sarde trovarsi faccia a faccia con questa idealizzazione tanto diffusa quanto priva di fondamento, di cui è necessario ripercorrere le tracce per districarsi ancora una volta tra il reale e il suo riflesso, distorto dal tempo e dalle narrazioni dominanti.

Un passo indietro dopo l’altro fa emergere dall’ombra della storia non tanto un matriarcato, quanto una serie di prerogative che la società tradizionale riservava effettivamente alle donne sarde. Come la trasmissione matrilineare del cognome diffusa in molte zone della Sardegna fino all’epoca giudicale, l’equa distribuzione dell’eredità a tutti i figli a prescindere dal loro genere e il matrimonio a sa sardisca, che non prevedeva nessuna dote da destinare al marito ma anzi la comunione dei beni tra i coniugi.

La colonizzazione ha cercato di strappare via queste autonomie nello stesso modo in cui, a braccetto con il capitalismo, ha strappato e strappa via le terre, allora come oggi, che siano le foreste rase al suolo dai Savoia per costruire i binari ferroviari dell’Italia unita; gli 800 ettari della costa di Sarroch, a sudovest di Cagliari, occupati dai lombardi per costruire la Saras, una delle più grandi e inquinanti raffinerie del Mediterraneo; o i terreni di Porto Cervo, in Gallura, acquistati dal principe arabo Aga Khan per progettare una località turistica posticcia destinata al turismo di lusso non certo sardo, ma italiano e straniero.

Per difendere la propria terra le donne sarde hanno sempre lottato da protagoniste. Nel 1868 a Nuoro fu la popolana Paskedda Zau, vedova e madre di dieci figli, a guidare la rivolta contro la proprietà privata dei terreni imposta dal re, chiedendo di tornare a su connottu, ciò che si conosceva e era in uso da sempre: l’uso comunitario dei campi da parte di pastori e contadini.

Nel 1969 le donne di Orgosolo erano in prima linea a occupare la terra da pascolo di Pratobello sfidando l’esercito che voleva sgomberarla per farla diventare un campo di addestramento.

Neanche questi fili si sono spezzati e oggi le femministe sarde continuano a portare avanti la lotta contro la militarizzazione e l’esproprio da parte delle forze armate italiane e della Nato: in Sardegna si trova il 60% del territorio italiano destinato a servitù militari, tra cui i due poligoni più vasti d’Europa, a Quirra e a Teulada. Un’occupazione che sottrae alla popolazione 35mila ettari di territorio in cui si registrano casi di tumori e neoplasie, malattie del bestiame e avvelenamento di terre e corsi d’acqua con danni gravissimi all’economia, all’ambiente e al tessuto sociale locale.

‹I nostri corpi e la terra che con essi attraversiamo non sono luoghi di conquista: scegliamo di farne luoghi di resistenza›, affermano le femministe che in Sardegna intrecciano l’opposizione al patriarcato a quella contro il dominio militare⁵, mettendo in pratica un’intersezionalità delle lotte che troppo spesso nei movimenti di giustizia sociale rimane solo un accattivante slogan per racimolare like.

Protette dallo spirito sempre vivo delle brùscias, donne tradizionalmente definite streghe perché libere, scomode e custodi di poteri dimenticati; passiamo sulla nostra terra leggere, sovvertendo il dentro e il fuori per riappropriarci della Sardegna ‹come geografia personale e politica›, scrive la compagna e sociologa Giada Bonu⁶.

Tante di noi se ne vanno, altre restano, ma sono soprattutto quelle che come me ritornano a sentire forte la responsabilità di dare un senso alla nostra diaspora, per far sì che le esperienze di emigrazione non siano più ferite aperte ma mappe per nuovi percorsi e nuove direzioni del nostro millenario racconto corale.

Annodando, grazie al femminismo, storia e memoria, passato e presente, distanza fisica e distanza del cuore, come donne e come corpi fuori posto e fuori norma lasciamo alle brùscias che verranno un pezzo di strada battuta in più lungo il cammino che ancora attraversiamo per imparare a farci finalmente centro.

diaspora menelique
La copertina del numero 5 di Menelique magazine

Ringraziamenti:

Per i consigli, il sostegno e gli spunti necessari a realizzare questo articolo sono grata a Moju Manuli, Giovanna Casagrande, Giada Bonu, Enrico Lobina, Omar Onnis, Amos Cardia, Silvia Aru.

Note:

1. Il Regno di Sardegna passò ai Savoia in cambio del Regno di Sicilia nel 1720, al termine della guerra di successione spagnola.

2. Tzeracche è l’italianizzazione del plurale di tzeracca, parola sarda che significava ‹ragazza› e che col tempo ha assunto il significato dispregiativo di ‹serva›. Da Giacomo Mameli, Le ragazze son partite, Il Maestrale, 2020

3. Anna Leone, Aree di convergenza della mobilità per lavoro della donna, in ‹Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico›, n. 17-19, 1982

4. Fabrizio Carmignani, Donne, famiglia e partecipazione al mercato del lavoro dagli anni ‘50 ad oggi, in Maria Letizia Pruna (a cura di), Mercato del lavoro in Sardegna, CUEC, 2010

5. Assemblea lotto3antimilitarista (a cura di), Siamo femministe, lesbiche, trans, queer, antimilitariste, , 2021

6. Giada Bonu, Le parole per dirlo, in Sebastiano Ghisu, Alessandro Mongili (a cura di), Filosofia de logu, Meltemi, 2021