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Razzismo di Stato: governo rivendica violazioni contro persone migranti

L'ultima relazione al Parlamento sulla sicurezza pubblica non è solo una lettura superficiale e decontestualizzata dei dati, ma un vero e proprio emblema di una politica che si compiace di mettere a rischio le vite umane

Il 12 gennaio 2021 è stata presentata dal ministero dell’Interno la relazione al parlamento sull’attività delle forze di polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata per l’anno 2019.

Immancabile il capitolo sulle migrazioni per rimanere coerenti con l’idea che il fenomeno migratorio sia un problema di sicurezza pubblica e criminale che necessita interventi repressivi o espulsioni, portata avanti dalla politica italiana di ogni schieramento fin dal Regio Decreto del 1931.

Questo è il problema strutturale, ma dal documento emergono anche molte altre criticità che confermano la prospettiva miope e discriminatoria che la politica italiana continua a portare avanti nei confronti delle persone migranti.

Una politica assolutamente inaccettabile da un punto di vista femminista intersezionale – per cui discriminazioni di genere, razza e classe si intersecano e si alimentano – che si nota innanzitutto dal linguaggio: nel documento compare 6 volte il termine “clandestini”, nonostante la Carta di Roma – che fornisce le linee guida per parlare correttamente delle persone migranti – da tempo sostenga che questa espressione vada eliminata.

Si tratta non solo di una parola giuridicamente errata che «contiene un giudizio negativo aprioristico, suggerisce l’idea che il migrante agisca al buio, di nascosto, come un malfattore». Ma è anche una delle colonne portanti dell’hate speech, «un termine usato dalla propaganda per seminare odio e per sollecitare una reazione di rifiuto che sempre più spesso si trasforma in violenza».

 

Buone notizie dal(le) front(ier)e

Il capitolo sulle migrazioni si apre con la constatazione del “decremento del flusso migratorio illegale via mare diretto in Italia nel triennio 2017-2019”. In particolare nel 2019 sono giunte sulle coste italiane 11.471 persone, circa la metà rispetto all’anno precedente.

Tra le cause di questa riduzione, la relazione annovera “il rafforzamento della collaborazione con la autorità libiche” e le “iniziative intraprese dalle autorità italiane finalizzate a limitare le attività delle ONG in mare”.

Di fatto, quindi, il ministero dell’Interno rivendica il successo e l’utilità degli accordi Italia-Libia, così come la criminalizzazione delle organizzazioni non governative (ONG) che organizzano operazioni di soccorso in mare.

Cosa comporta questo?

 

Occhi chiusi di fronte alle violenze in Libia

Il memorandum di intesa Italia-Libia – firmato nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno Minniti e prorogato, senza modifiche, il 2 febbraio 2020 dal sedicente Governo “della discontinuità” – stabilisce il supporto operativo e finanziario, da parte dell’Italia, nell’equipaggiamento e nell’addestramento della cosiddetta guardia costiera libica – di fatto, come scrive Luca Rondi su Altreconomia, «milizie armate che indossano uniformi statali» – in cambio del blocco delle partenze dalle coste nordafricane.

Il blocco delle partenze e la cosiddetta “esternalizzazione” delle frontiere (cioè stabilire un confine per l’ingresso dei migranti esterno a quello dello Stato, in questo caso italiano) è una politica miope, sconfessata dall’aumento del 34% del numero di persone sbarcate nel 2020, ma è anche una politica razzista, che volutamente ignora ciò che succede oltre i suoi confini, sempre più lontani dalle sue coste e dai suoi occhi.

Nel 2019, secondo i dati dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), le imbarcazioni intercettate dalla guardia costiera libica sono state il 41% in più rispetto ai periodi precedenti, con un conseguente aumento vertiginoso delle persone migranti ricondotte nei centri di detenzione libici, le cui condizioni “disumane”, gli “inimmaginabili orrori”, le violazioni dei diritti umani, le torture, i ricatti e gli stupri sono denunciati da tempo oltre che da attivist*, giornalist* e ONG, anche dall’UNHCR (l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite).

 

La criminalizzazione della solidarietà

Oltre che chiudere gli occhi sulla violazione dei diritti umani, il Viminale afferma anche che le organizzazioni che cercano di soccorrere i migranti nel Mediterraneo, cioè le ONG, favorirebbero un aumento della pressione migratoria. La teoria che le ONG siano un “pull factor” (un fattore di attrazione), però, è falsa, come dimostra anche lo studio di Eugenio Cusumano dell’Università di Leiden e Matteo Villa dell’ISPI: il numero di migranti che parte dalla Libia non aumenta in modo proporzionale all’arrivo nel Mediterraneo di navi con missioni di soccorso in mare.

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“Il soccorso in mare non è un crimine” – Foto di Mika Baumeister su Unsplash

In realtà, come dimostrano i dati dell’OIM, lo scarso pattugliamento nel Mediterraneo aumenta solo il numero di morti rispetto alle persone sbarcate (un morto ogni 13 persone, il 7,82%, nel 2019) e crea maggiori difficoltà nel soccorso delle imbarcazioni che naufragano.

«I soccorritori, con le loro denunce e le loro testimonianza, sono diventati testimoni scomodi e sono stati oggetto di una campagna di discredito, un processo di criminalizzazione», scrive Annalisa Camilli in La legge del mare.

L’atteggiamento verso queste realtà è cambiato. La retorica dei “vicescafisti” e dei “taxi del mare” è diventata permeante e le politiche europee hanno tradito lo spirito di solidarietà e umanità a favore di operazioni marittime di pattugliamento e controllo dei confini.

Nonostante la recente modifica dei Decreti Sicurezza voluti fortemente dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, permane nella legislazione italiana un’ipotesi che «criminalizza o almeno instilla il dubbio del comportamento reo di imbarcazioni e organizzazioni che salvano vite umane», si legge su Melting Pot Europa. Il ministro degli Interni, infatti, con l’approvazione del ministro della Difesa e dei Trasporti, può ancora vietare l’ingresso delle navi nei porti nazionali e le multe ai danni delle ONG responsabili delle operazioni in mare possono arrivare fino a 50mila euro.

 

Le persone migranti non arrivano solo via mare

La migrazione, in ogni caso, non passa solo dal Mediterraneo. Eppure, nonostante la rilevata diminuzione degli arrivi via mare, la Rotta Mediterranea nella relazione governativa continua a essere sovrarappresentata, proprio come nei media e nel dibattito pubblico e politico.

Della Rotta Balcanica, della situazione dei campi bosniaci, dei respingimenti violenti e illegittimi svolti dalla polizia croata e slovena non vi è alcuna traccia. Del cosiddetto “game” mortale che permette ai migranti di raggiungere Trieste si continua a non parlare. Troppo poco spettacolare per sfruttarlo per la propaganda elettorale nonostante già nell’ottobre 2019 il presidente turco Erdoğan sfruttava i migranti (che partono proprio dalla Turchia per seguire la Rotta Balcanica) per ricattare e minacciare l’Europa. «Ehi, voi dell’Unione europea – scriveva – lo dico ancora una volta. Se cercherete di presentare la nostra operazione [l’intervento militare in Siria, ndr] come un’invasione apriremo le porte e vi manderemo 3,6 milioni di migranti».

 

La tratta e la violenza di genere

Arrivando al tema della tratta, anche in questo documento, come nella maggior parte degli interventi sul tema, ci si concentra quasi esclusivamente sullo sfruttamento della prostituzione femminile in particolare di origine nigeriana, trascurando altri settori, come l’industria del sesso le cui vittime sono anche persone trans o giovani uomini, o lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, edilizia, logistica e altre aree.

La tratta degli esseri umani per il ministero dell’Interno «rappresenta un rischio per la sicurezza nazionale e internazionale in quanto costituisce una delle fonti di reddito più significative per il crimine organizzato transnazionale».

Non potevamo pretendere che lo leggesse come un fenomeno riguardante anche la violenza di genere e non solo le migrazioni, ma quanto meno come un fenomeno anche di violazione dei diritti umani.

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Cie di Ponte Galeria, Roma – Foto di Raffaella Cosentino per Redattore Sociale

A partire dal 2017, si afferma con orgoglio nella relazione, la tratta di persone è diminuita significativamente. Gli accordi Italia-Libia, bloccando le frontiere e le persone, hanno contribuito al decremento degli accessi. Ma nel 2018 con l’approvazione dei decreti sicurezza è calata anche l’emersione delle sopravvissute alle violenze e il numero delle loro denunce.

Le cause prime della tratta, scrive Giulia Garofalo Geymonat in “Vendere e comprare sesso”, «sono le condizioni di vulnerabilità e povertà globale, che creano un’offerta massiccia di manodopera a bassissimo costo che ne alimenta la richiesta».

A queste seguono le leggi che impediscono di spostarsi attraverso vie di accesso legali.

Esternalizzando i confini, appaltando il controllo dei mari alle milizie armate libiche o a Stati che non si fanno scrupoli a violare i diritti umani, «ciò che succede non è tanto che le donne non migrano più, quanto che provano comunque a partire, ma con ancora maggiore bisogno di “aiuto” da parte di un “facilitatore”».

Da questo punto di vista, le politiche contro la tratta costituiscono solamente delle ulteriori restrizioni alla migrazione legale e spingono le persone a cercare vie alternative a qualunque costo, economico, fisico e psicologico.

L’approvazione del decreto legge 113/2018 (uno dei Decreti Sicurezza di Salvini) ha influito notevolmente sulle vittime e le sopravvissute della tratta. È stato rafforzato il modello hotspot (che prevede strutture in cui le persone migranti vengono trattenute alla prontiera per essere registrate), contemporaneamente, son stati depotenziati i meccanismi di referral (cioè la cooperazione tra Stato e società civile per proteggere le vittime di tratta) ed è stata abolita la protezione umanitaria e smantellato il sistema di seconda accoglienza.

Secondo le stime dell’UNHCR, nel 2016 il 27,58% delle donne nigeriane richiedenti asilo hanno ottenuto la protezione umanitaria, il 7,66% l’asilo e il 5,01% dei casi la protezione sussidiaria. Il resto delle donne, la maggioranza, hanno ricevuto un diniego.

«I permessi umanitari – scrivono Action Aid e Cooperativa BeFree nel report Mondi Connessi – hanno costituito la prassi maggiormente diffusa e mediante questi si è garantita di fatto la possibilità di un soggiorno regolare e di un’emancipazione dalle reti criminali dedite allo sfruttamento».

Escludendo le persone richiedenti asilo e titolari di protezione umanitaria dal sistema di seconda accoglienza (ex Sprar), si costringono le persone più vulnerabili nei Cas e nei Cara. Strutture in cui vengono ammassate centinaia di persone senza nessun supporto psicologico e con operatori/operatrici spesso non formati/e sul contrasto e l’emersione dello sfruttamento.

In “Ascia Nera”, Leonardo Palmisano, per esempio, denuncia come le donne accolte nel CARA di Borgomezzanone fossero prelevate dai mafiosi nigeriani, in accordo con l’ndrangheta che lo gestiva, per sfruttarle.

 

Persone straniere e detenzione

Un altro aspetto da tenere in considerazione è che secondo la relazione, il 30.82% delle persone denunciate e arrestate è straniera. Un dato apparentemente allarmante se non contestualizzato, considerando che la popolazione straniera in Italia è appena l’8% del totale.

Come spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, «la sovra-rappresentazione degli immigrati fra coloro che sono dentro in attesa della condanna è il segno di un sistema giudiziario discriminante su base etnica».

Le persone immigrate, infatti, subiscono maggiormente i provvedimenti cautelari detentivi in carcere. La concessione di misure alternative è minore rispetto a quella per chi ha la cittadinanza italiana, anche perché dipende dal possesso di una abitazione regolare, impossibile per chi è irregolare, estremamente difficile per chi, anche avendo un permesso di soggiorno, è costretto a una vita precaria a causa di lavori sfruttati, in nero o sottopagati o al razzismo che rende più difficoltoso l’accesso alla casa.

Se si sviscerano i dati, si scopre inoltre che il 67,5% delle denunce e degli arresti riguarda immigrati irregolari, «costretti a vivere nel sommerso proprio anche dalle stesse politiche praticate dai decreti legge sicurezza, e in più i reati di cui questi sono accusati sono di bassa pericolosità sociale, ovvero reati minori», si legge su Africa.

Infine, ricordiamoci, che il reato amministrativo di permanenza irregolare sul territorio è punito con la detenzione nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), di fatto delle carceri, in cui è sospesa la tutela dei diritti umani, come ben raccontano LasciateCIEntrare e No ai CPR.

Una politica che colpisce chi è più vulnerabile

Per concludere, ancora una volta le migrazioni sono viste come un problema di sicurezza e di ordine pubblico, come un’emergenza da arginare impedendone l’accesso nella “Fortezza Europa” o decidendo chi ha il diritto di entrare sul suolo occidentale attraverso procedure sempre più rapide e svolte alla frontiera.

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“Stop alle guerre sulle migrazioni”, Berlino – Foto di Crawford Jolly su Unsplash

Si investe sempre meno per offrire ai cittadini provenienti da fuori l’Unione Europea strumenti per il loro benessere psico-fisico (è sempre più discriminatorio l’accesso alle cure e nelle prime accoglienze non è più previsto il supporto psicologico), per studiare la lingua italiana, per formarsi a livello scolastico e professionale, per entrare nel mondo del lavoro.

I dati del Dossier Statistico Immigrazione 2020 su questo parlano chiaro. Le persone migranti sono sistematicamente relegate ai margini, sia all’interno del nostro stato che oltre le frontiere, sempre più esternalizzate per aggirare il principio di non refoulement (non respingimento).

Le migrazioni, invece, sono un fenomeno strutturale del mondo globalizzato in cui viviamo. In questo mondo le merci possono andare ovunque, ma le persone con certi passaporti, provenienti da determinate zone del mondo, non hanno né il diritto né la libertà di muoversi.

Dal 2008 manca una seria programmazione dei canali di ingresso legali (i cosiddetti “flussi”) per le persone lavoratrici straniere. La legge sulla cittadinanza, mai riformata da 28 anni, è antiquata ed esclude ancora 63mila persone nate in Italia da coppie straniere e la richiesta da più parti dello Ius Soli è rigorosamente ignorata dalla quasi totalità della classe politica e dirigenziale del paese.

Le persone più vulnerabili – cioè lavoratori/trici agricoli/e ricattabili a causa di un permesso di soggiorno rinnovabile solo con un contratto di lavoro, le vittime di tratta minacciate da violenze fisiche, psicologiche ed economiche, le persone irregolarmente soggiornanti private dei diritti fondamentali – sono quelle più colpite dalle leggi sempre più restrittive e sempre più apertamente razziste in materia di migrazione.

La relazione al parlamento del Ministero dell’Interno non fa che confermarlo.

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Noi però, in quanto persone femministe intersezionali non possiamo ignorarlo. Come scrive Non Una di Meno nel Piano femminista contro la violenza di genere: «Razzismo e sessismo sono forme interrelate di violenza, nonché dispositivi di governo, volti a produrre (e conservare) gerarchie e forme di segregazione. Per combatterli non è sufficiente rispondere sul piano delle retoriche culturali, ma con politiche di trasformazione radicale della società, di redistribuzione della ricchezza, del welfare e di diritti».