Con questa raccolta di vostre testimonianze, chiudiamo la campagna #quellavoltache, una campagna che in pochi giorni ha permesso la condivisione di centinaia di storie di molestie e violenze sessuali, dando forza a tantissime donne e smascherando il victim blaming. Un grazie di cuore a tutte le persone che hanno partecipato con coraggio, non solo su Pasionaria, ma anche attraverso i social e tutti gli altri siti e blog che hanno aderito a questa denuncia collettiva. Insieme possiamo vincere anche i nostri più terribili fantasmi, e continueremo a farlo.
#QuellaVoltaChe
Anonima: #quellavoltache mio fratello, è entrato nella mia camera mentre dormivo, ha iniziato a baciarmi, toccarmi e ha cercato di scoparmi. Non riuscivo a muovermi né a reagire: non sono mai stata esile e sono molto forte, ma non sono riuscita a fare altro che stringere i muscoli della vagina per non farlo entrare e dire UN solo “no” come un lamento (e non un urlo!) che non è servito a nulla… Ad un certo punto ha rinunciato e si è addormentato su di me… sono rimasta lì, ancora pietrificata. Solo la mattina dopo sono riuscita ad alzarmi e andarmene via dalla stanza. Ci ho messo 8 anni per trovare la forza anche solo di affrontare quel ricordo e parlarne con qualcuno ed ora, che di anni ne sono passati 14, sto finalmente bene, ma no: non l’ho denunciato.
Anonima: #quellavoltache abbracciavo la mia compagna in strada e si avvicina un uomo chiedendomi “Perché l’abbracci? Ti piace la fica? Ti piace la passera, eh? E la lecchi pure?”. Tutte le volte che mi hanno chiesto come fanno due donne a fare l’amore, se raggiungono l’orgasmo, con quante dita. Le volte in cui mi hanno detto che tra donne non è davvero sesso, ma sono preliminari, perché non c’è la penetrazione.
Anonima: #quellavoltache è stata colpa mia. È stata colpa mia perché ho deciso io di entrare in quel giardino buio. Ho deciso io di seguirlo fino a lì. Avevo paura, lui se n’è accorto e mi ha detto di fidarmi, di non averne di paura. Mi sono fidata ed è stata colpa mia. È stata colpa mia se a un certo punto me lo sono trovato davanti. Saltato fuori dalle mutande. Penzoloni lì, tra noi due. La mia mano intorno. “E stringi” e io non ci riuscivo a stringere ma intanto stringeva la sua mano intorno al mio braccio. Dovevo finire i compiti di matematica, non dovevo rispondere ai suoi messaggi, non dovevo andare lì. É stata colpa mia.
È stata colpa mia anche sei anni dopo. Il pullman pieno e un signore anziano che sale. Si siede vicino a me. È estate, fa caldo. Sento la sua mano che dal suo sediolino striscia fino al mio. Gli sarà capitato, penso. E invece poi la mano arriva fino alla mia coscia. E poi il culo. Inizia a toccare, ad accarezzare. Non ho il coraggio di guardarlo. Tengo la faccia incollata al finestrino. Guardo strade e campagne scorrere via indifferenti. Vorrei scendere, non posso. Vorrei urlare, non mi crederebbe nessuno. Mi alzo e decido di fare il viaggio in piedi. Tanto manca soltanto un’ora all’arrivo.
Lo racconto alla mia analista. “Ti è piaciuto?”. Non credo alla sua domanda. Eppure l’ha detta. Vorrei alzarmi da questo lettino che mi sta scomodo. Lei continua, dice che il mio modo di vestirmi attira l’attenzione e che quindi dev’esserci stata una parte di me che ha provato piacere nel ricevere le attenzioni di un vecchio sul pullman. Mi convinco, allora, che anche stavolta è stata colpa mia.
È stata colpa mia e dei miei capelli blu. Dei pantaloni colorati e dei troppi braccialetti, dei tatuaggi. Perché a quindici o venti anni, ci sarà sempre una parte di te che crede che se qualcuno ti molesta è colpa tua.
Vale: #quellavoltache durante un concorso per entrare nelle forze armate arrivò il momento della visita cardiologica e a tutte noi ragazze fu chiesto di togliere maglietta e reggiseno e metterci in fila in attesa del nostro turno. Peccato che oltre al cardiologo ci fossero diversi militari nella stanza che non avevano nessun motivo per stare lì a guardarci come pezzi di carne, mentre tentavamo di coprirci il seno con le mani in coda e restavamo completamente scoperte durante la visita.
Ci siamo sentite terribilmente a disagio, ma non potevamo dire nulla perché temevamo di dargli un pretesto per eliminarci dal concorso, soprattutto in vista della visita psicoattiviale, dove il giudizio ha sempre un buon margine di soggettività. In nessun’altra visita cardiologica nella mia vita mi è mai stato chiesto di togliere il reggiseno, dato che per attaccare gli elettrodi basta spostarlo leggermente.
Anonima: #quellavoltache avevo 10 anni, ero una bambina bella e già in fase pre-adolescenziale, indossavo una gonna, un uomo ha infilato una mano sotto, ha toccato il mio sedere, pensavo stesse giocando e avrebbe subito tolto la mano, ma poi ho capito che non era un gioco, la mano indugiava sul mio sedere, lo palpava, ho iniziato a sentirmi a disagio e vergognarmi, sono riuscita a scansargli la mano e allontanarmi. Viaggiavo da sola in aereo, ero affidata all’equipaggio e lui era uno steward Alitalia. Tornata a casa lo raccontai a mia madre che non mi fece mai più viaggiare da sola e io forse ho smesso di indossare gonne…
L.: #quellavoltache ero piccola, non mi ricordo esattamente quanti anni avessi ma ricordo il profumo di quella stanza. Era un odore all’epoca gradevole ora quando lo sento mi si stringe lo stomaco. Le tapparelle erano chiuse, la porta chiusa. Non so che bisogno ci fosse di nascondersi, perché in realtà eravamo solo noi, la nonna non c’era. Lui era seduto sulla sedia con cui io di solito giocavo e su cui passavo le mie giornate, mi ricordo ancora adesso il colore blu dei jeans e le scarpe a mocassino, forse perché mentre succedeva tutto quello il mio sguardo era rivolta verso il basso. Non riuscivo ad alzare il viso e a guardalo, perché ero piena di vergogna. Al momento pensavo fosse un gioco. Non sapevo quello che stava facendo e soprattutto cosa fosse.
Tutto questo perché io mi fidavo di lui.
Mio nonno si slacciò i jeans e tirò fuori il suo membro.
Si accarezzò, e mi chiese di farlo come se fosse una cosa del tutto normale. Io non capivo.
Lo feci perché era lui a chiedermelo ed io ero troppo piccola per capire che non sarebbe dovuto succedere.
Dopo di che spinse la testa verso di esso.
Ho sofferto di attacchi di panico, e per molto tempo non ne capivo il motivo.
Quando con la terapia i ricordi riemersero, le cose presero forma e una definizione.
Donne grazie di questa giornata perché finalmente ho messo nero su bianco la mia storia.
Anonima: #quellavoltache avevo 17 anni. Frequentavo gli scout, successe durante una settimana comunitaria, periodo din cui si vive tutti insieme facendo ognuno quel che deve, scuola, sport ecc. L’ultima sera mi sono svegliata in piena notte per un fastidio, era un mio “amico” che aveva deciso di potermi fare un ditalino, ricordo di avergli spostato la mano e lui ha insistito, io più di lui e così ha smesso. Ho lasciato gli scout da quel giorno, non ho detto nulla a nessuno per tre anni. Ricordo la sensazione di schifo e di inferiorità che ho provato, nulla di razionale, tutta pancia. Mi è capitato di rivederlo, ogni volta provo un senso di fastidio guardando il sorriso di uno che forse, nemmeno ricorda.
Anonima: #quellavoltache avevo 19 anni e facevo il mio primo lavoretto come cameriera in un ristorante di lusso. A fine servizio restiamo solo io e il cameriere più anziano che inizia a farmi delle strane avances, sostenendo quanto secondo lui io volessi baciarlo. Mi spavento e faccio per andare verso l’uscita, lui mi supera e chiude la porta del ristorante a chiave, mettendosi tra me e la porta. Divento una furia e gli chiedo di aprire immediatamente e non so come riesco a scappare. Non sono mai più tornata in quel ristorante e non ho mai raccontato a nessuno di quella serata.
Anonima: #quellavoltache avevo 20 anni ed ero stata operata ad un ginocchio. Per la fisioterapia i miei si accordano con un loro conoscente, massaggiatore di lungo corso (aveva circa 60 anni) che viene a casa tutti i pomeriggi per il primo mese. Nella stanza eravamo soli e con il pretesto di massaggiare la gamba, arriva all’inguine… E non solo. Io sono rimasta paralizzata, sentivo il suo respiro affannoso ed eccitato, ma non riuscivo a muovermi. Fortunatamente si è limitato a massaggi esterni, ma sapevo bene che non erano semplici atti terapeutici. Non ne ho mai parlato perché sapevo che avrebbe negato, forse mi avrebbe anche dato della mitomane.
Anonima: #quellavoltache da adulta ho subito molestie sessuali soprattutto nei luoghi di lavoro e solo molto tardi e con grande sforzo ho imparato a difendermi. Ero divorziata, avevo due bambine e non avevo un lavoro stabile: la mia famiglia non mi ha mai aiutato, neanche durante la separazione da un marito violento, quindi dovevo anche guardarmi dal rischio che i servizi sociali mi togliessero le figlie. Proposte indecenti per aver lavoretti di brevissima durata ne ho avute a non finire. Quando, finalmente, ho avuto un lavoro a tempo indeterminato nel pubblico impiego, sebbene di qualifica molto inferiore per il mio titolo di studio, mi sono potuta permettere il lusso di non abbassare la testa di fronte a chi mi molestava: non ho mai denunciato, mi è sempre stato sufficiente minacciare ad alta voce di denunciare per molestie sessuali sul posto di lavoro.
Sono stata anche vittima di uno stalker. Mi sono rivolta alla polizia: non mi hanno aiutato, non hanno dato minimamente peso alle minacce di morte lasciate registrate in segreteria telefonica. Ho cambiato città e regione per proteggere me e le mie figlie. Al processo sembrava che l’inquisita fossi io. Ho avuto la fortuna di trovare un giudice intelligente che ha fatto smettere la sua avvocata d’ufficio che mi stava massacrando con le sue domande. Non so neanche se sia stato condannato, in quella città ci sono tornata di rado e sempre con estrema circospezione.
Selvaggia: #quellavoltache un amico di vecchia data mi dà appuntamento al parco e mi confessa di essersi preso una cotta per me: “Sono anni che penso a noi due insieme e volevo dirti che ti ho amata dal primo giorno in cui ti ho incontrata. Dammi una possibilità, dopo tutto quello che ho fatto per te in tutti questi anni, me lo merito”. Dopo quella strana rivelazione, con grande dispiacere, gli dico chiaramente che non ricambio i suoi sentimenti e che sarebbe opportuno non vedersi più, almeno per il momento. Lui reagisce molto male, mi afferra per un braccio e mi spinge violentemente contro un muro. Mi tiene incollata per qualche minuto alla parete e quasi non mi lussa una spalla sinistra. Poi, con un tono deciso, mi dice: “Adesso sali in macchina con me, senza fare storie. Non farmi arrabbiare, e per il tuo bene, fai come ti dico”. Non potevo credere a quello che mi stava accadendo. Ero confusa e spaventata, e l’uomo che avevo di fronte, non era più la stessa persona di cui mi ero ciecamente fidata in tutti questi anni di amicizia. Mi dice più volte di stare in silenzio e di non provare nemmeno per un secondo ad urlare, perché di lì a poco avrebbe commesso una sciocchezza, se solo avessi provato a scappare. Non presto ascolto a quello che dice e, mentre tento di chiedere aiuto, mi afferra per la gola e stringe le sue grandi mani attorno al mio collo per una decina di secondi, senza mollare la presa. Quelli sono stati i secondi più lunghi e più terrificanti di tutta la mia vita. Non ho avuto la forza e il coraggio di denunciarlo. Ho commesso un errore e, ancora oggi, dopo quell’abuso, non ho più voglia di stare a contatto con un uomo, qualsiasi esso sia.
Mariafrancesca: #quellavoltache a 16 anni m’innamorai di un ragazzo che ne aveva 18. Bello, intelligente, galante. All’inizio, mi sentivo incredibilmente fortunata. Ero piccola, immatura, ingenua e la sua figura mi trasmetteva sicurezza, mi piaceva l’idea di essere protetta da un ragazzo più grande. Pensavo che sarebbe stata una bellissima storia d’amore, finché lui non iniziò a manifestare fastidio nei confronti dei miei comportamenti e delle mie scelte. Non mi era concesso fumare, non avevo il diritto di parlare o uscire con degli uomini, non potevo uscire di casa se non vestita e truccata in modo appropriato, mi aveva convinta che tutti i miei amici si prendevano gioco di me e che dovevo liberarmene, non potevo esprimere un’opinione su qualcosa se prima lui non l’aveva approvata. Ero vergine, cercavo aiuto e comprensione da parte sua perché avevo tanta voglia di sperimentare ma lui rispose con aggressività e cattiveria, perché “non sai neanche scopare”.
Arrivò al punto di usare violenza fisica su di me, nel momento in cui ero più sola, dopo che i suoi tentativi d’isolarmi avevano avuto successo, eppure continuavo a incolpare me stessa e a giustificare il suo atteggiamento. Iniziai a pensare di meritare tutto ciò che stavo passando. Non mi colpiva mai in luoghi visibili e quando minacciavo di dire tutto ai miei genitori, o peggio alle forze dell’ordine, mi supplicava di non farlo perché “così mi rovini la vita!”. Nonostante una mia compagna di classe si accorse di ciò che stava accadendo e mi pregò di dire tutto ai suoi genitori, che erano poliziotti, io non agii. Tutto finii perché lui trovò un’altra da torturare con giochetti mentali e violenza.
Non mi perdonerò mai la mia codardia. Non c’è giustificazione alcuna per la mia passività. Spero che la mia storia possa convincere chiunque si trovi in una condizione simile. Non lasciate che nessun* abbia questo potere su di voi e siate coraggios* abbastanza da denunciare.
Mara: #quellavoltache mi sono ubriacata sulla spiaggia fino a vomitare per ore avevo 15 anni, mi avvicinavo ai 16. Lui, della mia stessa età, si offre di accompagnarmi in un punto isolato dove io possa vomitare in pace, lontano dalla festa. Mi chiede se voglio scopare con lui. “Sì, non lo so, sono vergine” rispondo, confusa dall’alcool e tremante dal freddo. “Vieni” mi dice lui, prendendomi per mano. Arriviamo fino al punto in cui avevo vomitato, suo cugino resta a fare il palo. A onor del vero, devo dire che in quel momento ho detto “sì”, per quanto possa contare il consenso di una ubriaca dato a qualcuno in pieno possesso delle sue facoltà. Ho addosso una canottiera non mia, non so di chi, macchiata di vomito. Lui si abbassa solo un po’ jeans e mutande, quel tanto che basta, poi fa lo stesso con i miei. O lo faccio io, non ricordo. Si infila un preservativo ed entra dentro di me. Ho delle immagini frammentarie impresse nella memoria, ma credo di aver rimosso il grosso. Ricordo che gli orecchini mi davano fastidio, ore prima che succedesse tutto questo, e li avevo lasciati a lui. Mi hanno raccontato che li ha buttati nel fuoco, urlando orgogliosamente di aver vissuto la sua prima volta e che era stato bellissimo. Ho sempre negato con tutti questo episodio e il gruppo ha creduto a me. Con il tempo credo di essermi convinta, per tanti anni della mia vita, che la versione dei fatti da me raccontata corrispondesse alla realtà: ci siamo baciati, io stavo troppo male e vomitavo, lui si è solo tolto le mutande e tutto il resto l’ha inventato. Ma ho sempre saputo come erano andate le cose e adesso so che non avrei dovuto essere io a vergognarmi.
Jennifer: #quellavoltache nel 2001, quando avevo 10 anni mia madre per pura taccagneria ha avuto la brillante idea di portare in casa un ex carcerato aiutato dalla parrocchia di cui facevamo parte e che avrebbe dovuto aiutarla a dipingere i muri di casa in cambio di un tetto e un pasto caldo, il problema è che lui aveva altro in mente. Una sera mentre mia madre dormiva si avvicinò a me e con aria di sfida mi iniziò a toccare il seno e in mezzo alle gambe, e per convincermi diceva che è questo che facevano i grandi. Per un po’ non ebbi il coraggio di reagire e in fondo credo che non volessi sembrare piccola, oggi gli avrei tirato un pugno in faccia ma a 10 anni non capivo. Poi lui mi chiese se volevo andare nella sua camera, mi spaventai ancora di più e corsi da mia madre e gli raccontai tutto e il giorno dopo con una scusa lo fece andare via.
Anonima: #quellavoltache avevo 15 anni o poco più, ero al mare di notte con un ragazzo che stavo frequentando, più grande di me. Ha insistito per fare l’amore con me, ho voluto provare ma poi spaventandomi gli dissi di smettere, non lo fece e mi penetrò. Ero vergine.
G.: #quellavoltache una mattina a quello che doveva essere il mio ragazzo ho detto no. E a lui non è importato. “Ma di solito ti piace. Ma mi hai detto si in precedenza”. E io, che ho urlato a pieni polmoni contro tutti quelli che in autobus mi si strusciavano non ho saputo che fare. Perché nessuno ti dice che il tuo stupratore può non spuntare da dietro un cespuglio ringhiante ma può avere il volto del ragazzo che pensavi d’amare. Che può essere il culmine di tanti discorsi minatori. Dico perché ma ancora non so perché sia stata lì e non sia riuscita a fare nulla se non abbandonare il mio corpo dopo aver capito che anche se avessi cercato di affrettare il processo non avrebbe fatto in fretta. Ho sperato che se mi sentiva come morta sotto di sé avrebbe finalmente capito. Ma nulla. E non capivo cosa mi succedeva. Ho provato ad affrontarlo dopo ma non sapevo dare un nome a quel gesto. Ho provato a raccontarlo ma nessuno mi ha saputo dire. E allora l’ho dimenticato. Tre mesi dopo ho iniziato ad ammalarmi. Ogni mese. Ho perso il posto nella scuola di recitazione che frequentavo. Non ci riuscivo più. Ancora oggi non so se riuscirei a riprendere. Prima o poi me ne sono ricordata. Ma non ho mai pensato di denunciarlo. Non avrei saputo cosa denunciare. Chi mi crederebbe? Non ci sono prove. Sono anni che cerco di levarmelo dal corpo, di tornarci dentro io. Di levarmelo dalla mente, non di dimenticarlo ma di superarlo. E spero proprio che si possa fare.
Elsa: #quellavoltache il mio (ex) ragazzo, di ritorno da una qualche cerimonia, rigorosamente ubriaco, mi vide dall’entrata della villa comunale parlare con dei ragazzi, tra cui la sorella e un’amica, ma invisibili a suoi occhi; avanzava minacciosamente mentre io gli andavo incontro sorridente; capii la situazione e cercai di uscire dalla villa per potergli parlare e mi sferrò un calcio sulla gamba. In quel momento feci lo sbaglio più grande, andare verso la mia macchina per poter andare via, lui mi seguì, entrò dentro e iniziò a colpirmi senza neppure guardare, in tutti i modi reagivo, ma lui aveva sempre la meglio finché il naso cominciò a sanguinare e il dolore era atroce, una testata, una testata proprio sul mio viso. Ero al primo anno di università, 19 anni. Grazie per questa opportunità di sfogo, sono passati tre anni ma il mio io più profondo non è mai riuscita ad andare oltre quella sera. La paura è tanta, il terrore di poter incontrare un’altra persona che ti privi della tua libertà solo per capriccio è maggiore. Avrei solo bisogno di essere amata, ma veramente questa volta. Senza lividi da dover coprire.
Anonima: #quellavoltache quando avevo 14 anni frequentavo un gruppo musicale e purtroppo tra questi ragazzi ce n’era uno in particolare che, ho capito solo dopo tanti anni, mi molestò a lungo lasciandomi incapace di capire la gravità della situazione e di reagire. Lui aveva 9 anni più di me e, con ogni scusa, cercava di trovarsi solo con me: un passaggio a casa, un orario di ritrovo comunicato erroneamente una qualunque scusa che per me diventava una trappola. Una volta soli cercava sempre di baciarmi e di toccarmi, in un modo che io non capivo e che mi lasciavano imbarazzata e pietrificata. Mi circuiva dicendo che la sue erano attenzioni normale, che gli piacevo, che era geloso dei miei amici… come una normalissima cotta. Io mi sentivo così in colpa e sporca perché mi ero lasciata toccare in quel modo da lui, perché alla fine continuando ad insistere avevo lasciato che mi baciasse, perché lui mi faceva credere che ero io a volerlo e che lo avevo provocato. Mi sono sentita una stupida ragazzina debole per anni. Avrei potuto dire di no subito, dargli uno schiaffo, dirlo a qualcuno, evitarlo in tutti i modi… Ho finalmente capito che quelle erano molestia intorno ai 24 anni, quando ho pensato alla differenza tra me e un qualunque 14enne che aveva dato solo un bacio in vita sua. Eppure anche ora raccontando questa storia mi sento una stupida debole, vorrei tornare indietro e cambiare le cose con la forza che ho ora, vorrei poterlo dire a qualcuno senza sentirmi giudicata (in primis da me stessa). Eppure non ci riesco. Spero che la mia storia possa dare la forza ad altre di reagire e di aprire gli occhi su quelle molestie subdole che ti logorano dentro e che possa insegnare ad altri a non giudicare.
Daniela: #quellavoltache mi presento a un colloquio di lavoro a luglio, a Roma fa un caldo insostenibile, ho un paio di pantaloni larghi e una canottiera senza reggiseno. Non si vede nulla, solo si percepisce che sono senza reggiseno perché le spalline sono sottili. Faccio il colloquio, mi danno il lavoro, mi impegno, creo un bel clima con i colleghi, partecipo attivamente al progetto, va talmente bene che si decide di farne altre edizioni. Parlo di nuovo al telefono con il responsabile, mi chiede se voglio lavorare ancora per la seconda stagione, gli dico che passo in ufficio e vediamo se si incastrano un paio di cose di date e soldi. Mi risponde: “Basta che ti rimetti quella canottiera senza reggiseno che avevi la prima volta”. Attacco, non vado a nessun colloquio, non mi sento offesa, non mi sento sminuita, penso solo che la prossima volta meglio mettersi il reggiseno, magari una camicetta. Non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello che l’errore sia il suo, questo per dire quanto ci siamo infilate dentro fino al collo.
Enrica: #quellavoltache ho dodici o tredici anni, pieno giorno, cammino nel centro storico della mia città ascoltando musica dal walkman con le cuffie, Entro in vicolo deserto, mi si avvicina un ragazzo, cerca di parlarmi come se volesse chiedermi delle informazioni. Tolgo le cuffie per sentire cosa ha da dirmi, lui mi spinge contro un palazzo e comincia a palparmi un seno. Provo schifo vergogna e paura insieme, riesco a togliergli le mani ma non a gridare, solo a farfugliare qualcosa. Lui ride e scappa via. Riprendo a camminare e sento un fortissimo senso di colpa e di responsabilità per quello che è successo: non avrei dovuto prendere quella strada, avrei dovuto tirare dritto senza rispondergli, non avrei dovuto togliere le cuffie, non avrei dovuto dargli quell’impressione. Non ne ho mai parlato con nessuno e ho messo la faccenda in una zona del mio cervello dove stanno le cose di poco conto, dicendomi “alla fine non è stato grave”, “in fondo non mi ha praticamente fatto niente”. Oggi, leggendo altre storie di violenza, questo episodio mi è tornato in mente con prepotenza e ho deciso di raccontarlo.
Anonima: #quellavoltache sono stata fidanzata quasi 7 anni con un ragazzo che esercitava violenza psicologica su di me, mi aveva conosciuto nel periodo più sensibile della mia adolescenza, lui 7 anni più di me, controllava la mia vita, le mie amicizie, i miei spostamenti. Conto almeno tre episodi di violenza sessuale, innumerevoli sono invece gli episodi di violenza psicologica in cui dovevo chiedere scusa, sempre io. L’ho lasciato dopo sei anni e mezzo. Dopo ha stalkerato il mio telefono di casa per notti e notti. Ho fatto tre anni di terapia per capire che la colpa non era mia e per amare me stessa. Una volta mi è capitato di rivederlo in macchina ad un semaforo, io in bicicletta col caschetto e gli occhiali da sole, il cuore mi si è ghiacciato, sono partita a tutta velocità col semaforo rosso, rischiando brutto, ma non potevo lasciare che si accorgesse che ero io, che mi fermasse.
Anonima: #quellavoltache all’età di circa 9 anni ho messo la gonna per andare al cinema con mio padre, ma al cinema accanto a me nel buio una mano estranea si allungava sotto quella maledetta gonna. Non capivo cosa stesse accadendo, mi sono sentita disperatamente fragile e sporca e solo quando mi stavo girando per dire: “Papà ma cosa mi stanno facendo?” Quella mano è scivolata nel buio e nel limbo delle cose mai dette. Avevo paura di non essere creduta, se lui non aveva visto forse non era mai accaduto… ma le maledette gonne non le ho più volute indossare, il voler essere femmina per mio padre era stato la causa di tanto dolore. Ho fatto uno sforzo ad usare di nuovo la gonna a cercare un nuovo contatto con la mia femminilità che non si era più espressa attraverso l’abbigliamento. Fino a ieri sera quando un amico/amante si è permesso ad alzarmi la gonna in pubblico e lasciarmi in mutande di fronte a tutti, riscaraventandomi alla stessa vergogna di quella sera. Ieri però non sono stata l’unica a vergognarsi, forse sono riuscita a rimandargli la stessa sensazione.
Anonima: #quellavoltache ho fatto entrare in casa un mio amico, dopo aver festeggiato il capodanno assieme. Mi fidavo. Mi è saltato addosso e io ho detto di no, ma evidentemente non con abbastanza forza o convinzione. O almeno questo è quello che mi sono raccontata,visto che l’ho lasciato fare. Se ne è andato e per più di un anno è letteralmente sparito. Quando è tornato a farsi vivo mi ha detto che si era vergognato, per questo non si era più fatto sentire. E io non ho denunciato e forse,fino a pochi giorni fa, dentro di me, ho tentato di giustificarlo colpevolizzandomi io.