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La vita a volte ti fa incontrare persone preziose quasi per caso. È in questo modo che ho conosciuto Beatrice da Vela: a scuola, entrambi precari, quindi senza mai sapere dove si sarebbe insegnato il prossimo anno.
Così mi sono ritrovato ad ascoltare la presentazione del libro #quellavoltache – storie di molestie, ne sono stato colpito e l’ho letto avidamente ma con lentezza. Perché quel dolore andava assaporato con calma per poterlo rispettare, per poter ambire ad imparare qualcosa dalle storie perdute e ritrovate che si dipanavano, un po’ velate, di fronte a me.
Mi sono portato dentro per mesi quel seme che era stato piantato. Semi del genere quando, e se, riescono a mettere radici è perché trovano un qualche cosa a cui legarsi.
Nel mio caso è stata la passione per i giochi di ruolo.
Capita che il tema del Game Chef 2018, un’amichevole competizione tra creatori di giochi di ruolo e da tavolo in cui ci si può cimentare in nove giorni a creare un prototipo di gioco, sia “Storie Perdute”. Così un lunedì mattina d’agosto mi prenda un’idea: creare un’esperienza che utilizzi il gioco di ruolo per esplorare quel groviglio di temi che rappresenta #quellavoltache.
Febbrilmente, in poco meno di tre ore, scrivo cinque pagine di idee, spunti e regole, mi rendo conto che forse ho qualcosa su cui potrebbe valer la pena lavorare, ma non posso e non voglio farlo da solo. Prendo il telefono e dico: ”Ciao Beatrice, ho un’idea un po’ pazza che ha bisogno di te”.
Così nasce il progetto “Quella Volta Che – un’esperienza di roleplay“.
Ora che spero di avervi incuriosito posso spiegarvi di che cosa si tratta.
Che cos’è il gioco di ruolo #quellavoltache?
In generale un gioco di ruolo può essere molte cose diverse. Si definisce gioco perché ha delle regole su quali giocatori possono dire e fare cosa in un determinato momento, in modo tale da raggiungere gli obiettivi del gioco.
Nel caso di #quellavoltache lo scopo è un’esperienza in cui chi gioca si cala nei panni di alcuni personaggi, per interpretarne le storie, elaborandole in corso d’opera. È un’attività che ha elementi dell’improvvisazione teatrale, del gioco da tavolo e della creazione collaborativa di storie.
Per capire come lo scopo venga raggiunto, devo spiegarvi a grandi linee come #quellavoltache funziona. Piuttosto che a pedine e a dadi, cercate di immaginarvi un gruppo di persone che parlano intorno a un tavolo ed elaborano insieme una storia.
Allo stato attuale dello sviluppo, il gioco è rivolto a gruppi dai tre alle sette persone che hanno circa due ore e mezza o tre a disposizione, in pratica un dopocena o il tempo di un’assemblea politica.
L’esperienza si svolge in più fasi, o atti se volete. Vengono spiegate le regole del gioco, regole molto precise che servono a creare uno spazio sicuro in cui questi temi possano essere affrontati nel modo giusto.
Nel regolamento è previsto che chi conduce il gioco sia una persona che sia già formata sul tema e che, possibilmente, frequenti ambienti femministi: questo per far sì che la discussione possa poi essere gestita in modo ottimale.
Poi si introducono i partecipanti al tema estraendo delle carte da un mazzo: su ogni carta c’è una storia #quellavoltache fittizia, scritta dagli autori, che è però assolutamente verosimile e prende ispirazione dalle situazioni contenute nel libro.
![#quellavoltache](https://pasionaria.it/wp-content/uploads/2018/02/28166531_10213234339870210_860664510715789312_n.jpg)
Ogni partecipante riceve tre di queste carte che, in cerchio, vanno lette ad alta voce una per volta, creando così l’atmosfera giusta a far comprendere a tutti di cosa si sta parlando.
I personaggi entrano in scena: ogni persona sceglie un personaggio fra le circa due dozzine disponibili. Ogni personaggio è descritto pressapoco così: “Io sono Margherita Fioli, ho 46 anni e faccio il medico. Potrei conoscere queste persone: primario del reparto, marito, figlia, amico d’infanzia, paziente”. Sono abbozzi e sono dei più vari, sia in termini di identità di genere, di età, lavoro, estrazione sociale, orientamento sessuale, provenienza: sarà la storia che emergerà al tavolo a dirci di più su chi sono e, soprattutto, cosa accadrà loro, usando un meccanismo di creazione collaborativa.
Poi il caso, sotto forma di dadi, sceglierà alcuni personaggi: loro saranno le persone che subiranno un abuso, mentre gli altri non li rivedremo più e continueranno la loro vita tranquillamente.
Nella successiva fase, la più emotivamente intensa del gioco, ciascuno deve contribuire a narrare come le persone prescelte subiscano l’abuso. La persona che all’inizio ha scelto quel personaggio può cercare di opporsi quando succedono cose inaccettabili alzandosi e dicendo BASTA.
Con dei tiri di dadi si scopre se l’abuso finisce a quel punto e la scena della vittima gira per il meglio o no. Le regole spingono affinché le scene siano brevi ed intense, che non continuino oltre un certo punto: se le cose vanno al peggio a un certo punto c’è comunque una sorta di “dissolvenza in nero”.
Alla fine i giocatori che avevano scelto i personaggi dovranno scrivere il #quellavoltache che è accaduto al loro, dopodiché dovranno affrontare una scelta: il personaggio decide di raccontare a qualcuno la molestia subita, oppure decide di tenerla per sé.
Nel primo caso il giocatore legge il #quellavoltache appena scritto, nel secondo caso, senza una parola, strappa il foglio e nessuno, mai più, neanche dopo la fine del gioco, potrà parlare di ciò che è successo, perché quella storia è adesso perduta.
L’esperienza si conclude con una discussione strutturata su ciò che è avvenuto, su cosa sia una molestia e sulle emozioni che si sono provate.
Empatia come strumento di lotta
Il lato emotivo del gioco è quello fondamentale: in una società in cui non c’è un’educazione alle emozioni, in cui ai ragazzi viene insegnato che possono esprimere solo alcune emozioni, in cui alle ragazze viene insegnato che non devono farsi molestare, un punto fondamentale è costruire empatia.
Empatia che si può costruire anche mettendosi nei panni del carnefice dell’abuso: se infatti la protagonista della storia è la “vittima” ed i giocatori “muovono” la storia sempre descrivendo le cose dal suo punto di vista e in prima persona, i giocatori che fanno accadere violenze diventano, in quel momento, di fatto, il molestatore.
Non è una cosa piacevole e non vuole esserlo: è un’esperienza intensa ma non è pornografia della violenza. Non se ne trae nessun piacere perché, a differenza delle vite spesso isolate e solitarie che conduciamo, a differenza del molestatore, siamo inseriti in un contesto sociale che costantemente ci inonda di risposte emotive in merito a ciò che stiamo infliggendo a un essere umano e ci sono molte regole del gioco che coscientemente lavorano su questo aspetto. Regole che servono anche a creare uno spazio sicuro in cui questi temi possano essere affrontati nel modo giusto.
Costruire empatia e comprensione è un processo: dal razionale si va all’emotivo e si torna indietro al razionale e così via. Senza esperienze emotivamente intense è difficile comprendere veramente lo spettro di emozioni che prova chi subisce un abuso, lo si può capire razionalmente, ma ci sono dei limiti.
Per questo comprendere e vedere simili emozioni a volte è così difficile per una persona che non le ha mai toccate con mano.
Lo strumento del gioco di ruolo può essere uno strumento di lotta fondamentale su questo terreno. A partire dai mondi degli attivismi della sinistra che molto spesso razionalmente “capiscono il problema” ma che fanno più fatica a connettersi a un livello più profondo che dia realmente credito alla autodeterminazione di chi ha vissuto una violenza sulla propria pelle.
Questa esperienza di roleplay può essere uno strumento per far riflettere, nelle giuste condizioni, giovani adulti ed adulte su un tema così delicato e di cui è difficile parlare in modo non cattedratico, paternalista e… noioso, come purtroppo sono spesso percepite le iniziative politiche culturali.
Allo stesso tempo può servire per svecchiare anche certi ambienti dell’attivismo che sono a volte densi di persone di cultura e conoscenze altissime ma che, a volte per semplici motivi di età, fanno fatica a trovare linguaggi e forme che possano essere comprensibili e coinvolgenti a chi non è dell’ambiente e alle persone più giovani.
Il progetto è agli inizi ma aver ricevuto una menzione d’onore dalla giuria italiana del premio e l’aver ricevuto già molti responsi positivi da chi l’ha letto. Abbiamo già eseguito un primo playtest online, che ha dato un esito positivo e soprattutto ci ha dimostrato che il gioco riesce a suscitare empatia.
Continueremo dunque a lavorarci e anzi ci farebbe piacere se qualcun* volesse contattarci per leggerlo o magari sperimentarlo.