Cosa significa denunciare una violenza o una molestia sessuale subita? Quanto sia difficile essere prese sul serio lo stiamo vedendo anche in questi giorni: le denunce delle attrici contro il produttore di Hollywood Harvey Weinstein hanno scatenato reazioni molto significative di quanto sia radicata la cosiddetta cultura dello stupro, una cultura che giustifica e minimizza le violenze e colpevolizza le vittime.
Abbiamo assistito, infatti, a tantissimi attacchi, anche molto virulenti, ad esempio contro Asia Argento, “colpevole” di non aver saputo dire di no.
Non è una novità, purtroppo. La colpevolizzazione delle vittime è esattamente la ragione per cui tantissime donne non denunciano rimanendo, spesso, per anni imprigionate in un vortice di violenza e abusi, fisici e psicologici.
Da una proposta di Giulia Blasi in un gruppo Facebook è nata l’idea della campagna #quellavoltache.
Un hashtag con cui condividere sui social network il proprio racconto di quella volta che siamo state e stat* vittime di un abuso, di una violenza, di una molestia senza denunciarla.
Per paura che nessuno ci credesse, per vergogna, per la convinzione che un po’ fosse anche “colpa nostra”, per paura della reazione di chi ci aveva molestato. Chi subisce un abuso o una violenza non è mai colpevole di quanto accade. Mai.
Gaypost e Pasionaria hanno raccolto l’appello a diffondere la campagna e se ne fanno megafono. Da oggi pubblicheremo le storie condivise sui social con l’hashtag #quellavoltache e ospiteremo i racconti di chi preferisce non usare il proprio profilo social per denunciare e vorrà mandarcele tramite messaggio privato o via mail a redazione@pasionaria.it.
Che siate state vittime di una molestia o anche se semplicemente vi abbiate assistito, raccontatela, raccontatecela. Che sia stata fisica, psicologica, di potere, sul bus, per strada, in casa, in ufficio: un abuso è un abuso, una violenza è una violenza, sempre.
#QuellaVoltaChe
Ecco alcune delle prime storie che abbiamo raccolto solo all’interno della nostra redazione:
Beatrice: #quellavoltache un sabato mattina presto, mentre andavo a lavoro, un giovane si è seduto accanto a me mentre leggevo e ha cominciato a importunarmi con domande personali, anche se io non rispondevo e avevo la testa nel Kindle. Poi mi sono accorta che aveva tirato fuori il pene e si stava masturbando. Non sono riuscita a far altro che cercare di far finta di nulla e continuare a leggere, soprattutto data la stazza del tipo (più alto e decisamente più grosso di me). La cosa peggiore è stata che ero seduta dal lato del finestrino e gli sono dovuta passare contro per scendere dal treno.
Anonima: #quellavoltache stavo solo giocando a nascondino. Ero una bambina, avrò avuto sì e no 10 anni e stavo giocando con altri bambini e un cugino più grande. Proprio lui si è nascosto insieme me e, nella penombra, ha pensato che potesse tranquillamente infilare le mani nelle mie mutandine per palparmi il sedere. I primi secondi sono rimasta paralizzata, poi sono diventata rossa di rabbia e d’istinto gli ho lasciato le impronte della mia dentiera sul braccio, stringendo con tutta la forza che avevo. Lui ha ritratto le mani, dandomi anche della pazza ma da quel momento non si è mai più permesso di sfiorarmi. Mi sentivo uno schifo, come se fossi sporca, violata nella mia intimità, anche se per pochi secondi. Ho tenuto dentro di me questa storia per diverso tempo, fino a quando un
giorno non l’ho raccontata a mia madre. Ricordo che avevo lo sguardo rivolto verso il basso, mi vergognavo terribilmente e parlavo a fatica, piangendo. Mi vergognavo io, questa è la cosa più assurda.
Roberta: #quellavoltache ero a Roma nel 2009. Autobus, poche persone, stanchezza. Sto per scendere e qualcuno mi si avvicina. Sento il suo fiato sul collo e sento il suo pene contro di me. Mi sposto e lui insiste. Non riesco a girarmi ma finalmente arriva la fermata e posso scendere. Lui prosegue. Io mi sento sola e maledettamente in colpa.
Anonima: #quellavoltache circa sette anni fa ero ad una serata e avevo bevuto veramente tantissimo. Ad accompagnarmi a casa è stato il ragazzo di una delle mie migliori amiche di allora. Lei non c’era, si fidava ciecamente. Per tutto il viaggio mi ha ripetutamente infilato una mano sotto la gonna fino a toccarmi proprio fra le gambe. Io gli spostavo la mano e lui continuava, ma non volevo alzare la voce perché c’erano altre persone in macchina con me e mi vergognavo a farlo notare. È stata una cosa veramente orrenda, io non gli avevo dato modo di pensare a niente di ambiguo. Giorni dopo, mi convinco a raccontarlo alla mia amica in questione. Lei ha pianto, è uscita di casa ed è andata da lui. Dopo qualche ora mi chiama per dirmi che non poteva essere successo quello che le avevo raccontato perché secondo il suo ragazzo io ero troppo brutta e non mi avrebbe mai toccato con un dito. Chiaramente ha smesso di parlarmi ed è stata con lui ancora per qualche anno.
Benedetta: #quellavoltache da ragazzina stavo camminando in città in un deserto e torrido pomeriggio d’agosto. Lungo la strada mi accorgo di un ragazzo che fa avanti e indietro in motorino e tiro dritto. Dopo un po’ arrivo a casa della mia amica, mi fermo al portone e sento un rantolo. Mi giro e vedo quello stesso ragazzo fermo sul motorino in mezzo alla strada con il pene fuori dalla tuta che si masturba guardandomi dritto in faccia. Sono rimasta impietrita per qualche secondo o forse minuto, non ricordo. Non ho avuto il coraggio di gridare, né di correre via: ero disgustata e avevo paura che potesse farmi qualcosa. Lui non si è mosso finché non sono entrata, sentendomi un pezzo di carne.