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I pregiudizi del femminismo occidentale sul velo islamico

Velo: tre giovani ragazze musulmane in hijab con i loro skateboard

Lo scorso dicembre ha fatto notizia la decisione della ministra della difesa tedesca Ursula von der Leyen, di non indossare il velo durante la sua visita istituzionale in Arabia Saudita, paese in cui le donne non possono neanche guidare e uscire di casa da sole senza la presenza di un uomo.

Un gesto apprezzato da alcune femministe, che hanno sottolineato la differenza con Federica Mogherini, l’Alta rappresentante della politica estera dell’Ue, e dell’ex ministra all’Istruzione Stefania Giannini che pochi mesi prima si erano presentate in Iran rigorosamente velate.

A spiegare lo sdegno di molte attiviste iraniane è stata Elham Zanjani, figlia di dissidenti iraniani emigrati in Canada, che in una intervista spiegò:

Quando le rappresentanti diplomatiche dell’occidente vanno in Iran e indossano il velo, che messaggio inviano alle donne iraniane? E’ un insulto. Un insulto alle donne iraniane. E’ come dire: “Prego, andate avanti così a opprimere le donne. Le donne qui non hanno diritti? Nessun problema”. Le donne sono sempre le più vulnerabili. E questo viene tollerato, purtroppo. L’ulteriore aspetto negativo è che la gente dirà che si tratta di cultura, che le donne dell’Iran, culturalmente o storicamente, devono mettersi il velo e questo è quanto. Ma questo non è affatto vero: le donne in Iran sono diventate all’improvviso cittadine di seconda classe dopo la Rivoluzione iraniana.

Non avrei saputo esprimere meglio la mia opinione sulla condizione iraniana, ma il mio pensiero generale sull’utilizzo di quello che comunemente chiamiamo “velo islamico” è molto più complessa.

Il tema, infatti, non è semplice come potrebbe sembrare a molte persone occidentali, e merita più di un approfondimento, soprattutto da parte dei femminismi.

Viviamo un tempo in cui la comunicazione tra Occidente e Islam diventa di giorno in giorno più difficile, ma anche più importante: su di essa si basa gran parte dell’integrazione sociale, in Europa come negli Usa. E in questo contesto la scelta delle donne musulmane di indossare o non indossare il velo, scelta personale ma spesso di grande valenza politica, viene di frequente strumentalizzata.

Come è accaduto di recente con la decisione di alcuni sindaci francesi di vietare il burkini, in seguito all’attentato di Nizza (provvedimento poi decretato illegittimo).

A Londra, città tra le più multiculturali d’Europa, è stato eletto lo scorso anno Sadiq Khan, primo sindaco musulmano nella storia della città. Gli occhi della stampa si sono rivolti immediatamente su sua moglie, Saadiya Ahmed: la maggior parte del mondo occidentale temeva di trovare una donna con il velo, ma si è ritrovata di fronte a un’avvocata dal capello corto.

Cosa sarebbe cambiato se Saadiya avesse indossato un hijab?

Ma la prima domanda che dovremmo chiederci è: quanto conosciamo realmente del velo islamico e della condizione femminile dei diversi paesi di cultura islamica con i quali ci stiamo sempre più confrontando?

Giannini e Mogherini erano molto giovani quando, l’8 marzo del 1979, più di centomila donne scesero in piazza a Teheran per protestare contro la sentenza del nuovo governo islamico che sanciva l’obbligo a indossare l’hijab. Da quel momento in poi la vita delle donne in Iran è diventata un’escalation di privazioni e mancanza di diritti umani.

L’espatriata Masih Alinejad, giornalista e scrittrice, ha lanciato pochi anni fa la campagna online My Stealthy Freedom, per affermare che la libertà di ogni singola donna iraniana passa dalla possibilità di scegliere se indossare o meno l’hijab. Masih invita le donne residenti in Iran a violare la legge e condividere le proprie foto senza il velo tradizionale: la pagina Facebook ha più di un milione di sostenitori.

Velo: due ragazze si tolgono il velo in spiaggia
Velo: immagine dalla pagina Facebook di My Stealthy Freedom

Eppure in altre zone del mondo, soprattutto in Occidente, crescono i movimenti femministi islamici che rivendicano l’utilizzo dell’hijab come atto femminista, come ha ben spiegato la studentessa londinese musulmana Hanna Yusuf in un video che ha fatto molto discutere.

Ognuno e ognuna di noi ha almeno una collega, un’amica o una conoscente che indossa il velo. Pensiamo che tutte siano donne sottomesse o c’è qualcosa in più che merita di essere indagato proprio alla luce del sempre maggiore bisogno di dialogo e integrazione?

Lo scorso maggio Valeria Fedeli ha ricevuto in Senato Tawakkul Karman, Nobel per la Pace nel 2011, madre della primavera araba in Yemen, leader della protesta femminile contro il regime di Saleh, nonché fondatrice dell’associazione “Giornaliste senza catene”. Lei, che evidentemente non è una donna sottomessa e nel 2004, alla Conferenza sui diritti umani, si tolse pubblicamente il niqab, indossa l’hijab. Non solo lo indossa, lo difende.

Così come molte altre attiviste musulmane. Emblematico è l’esempio di Asmaa Abdol-Hamid, politica danese figlia di rifugiati palestinesi, musulmana e femminista, che nel 2007 aspirava a essere la prima deputata del Parlamento Europeo con l’hijab, scatenando non poche polemiche in Danimarca e non solo.

Ognuna di queste donne tende a sottolineare la differenza tra la possibilità di scegliere liberamente di indossare l’hijab e l’imposizione per legge di quest’ultimo o di altre tipologie di velo, che invece viene condannata a voce unanime.

Il dibattito dunque è aperto, rimangono centrali da entrambe le prospettive la priorità della libertà di scelta e il bisogno di autodeterminazione femminile.

Se il velo è diventato il simbolo più evidentemente sdoganato per dimostrare l’incompatibilità tra Occidente e Islam allora, a maggior ragione, siamo chiamati a creare dialogo su questo argomento senza facili moralismi e pregiudizi, ancor più se donne e femministe.

Le nostre diverse correnti di pensiero non devono forse mantenere come obiettivo la lotta per la libertà e i diritti delle donne?

Per questo vorrei invitare alla lettura del saggioOltre il velo” di Leila Ahmed, che sviscera il femminismo nel mondo islamico e offre un vasto quadro storico della questione femminile nella cultura musulmana.

Se vogliamo contribuire al dibattito sulla condizione delle donne islamiche dobbiamo ascoltare le molteplici voci e farci portatrici di azioni concrete, sostenendo che anche se personalmente non amiamo il velo, difenderemo chi vuole indossarlo, così come chi non vuole indossarlo ma è costretta a farlo.