fbpx

Poliamore, “Mi sentivo sbagliata, poi ho smesso di mentire a me stessa”

Poliamore: uomini e donne una a fianco all'altro

Ha i capelli rossi e mossi, un filo di ricrescita castana, le unghie laccate da uno smalto nero appena scrostato. Samanta si rivela a me con queste prime imperfezioni e un sorriso perlato.

Ha grandi occhi marroni, una borsa bauletto in pelle («in ecopelle», mi dirà dopo, con quello stesso sorriso che non lascia spazio all’imbarazzo) e delle scarpe in tela zebrate, in barba alla serietà adulta che borsa e camicia potrebbero suggerire. Il suo accento è un crogiolo di cadenze, archivio vivente di luoghi frequentati e vissuti.

La incontro davanti a un bicchiere rosso per parlare di poliamore e mi spiazza subito con un commento diretto.
«Un anno fa non l’avrei fatto»
«Fatto cosa?»
«Dico… un anno fa non avrei mica accettato di incontrarti per parlare di me. Ero clandestina». Sorride.
«Cosa intendi per clandestina?» le domando.
«Significa che mentivo. Anche a me stessa».

Sono quasi sollevata, come mi succede ogni volta che incontro qualcuno che ammette con serenità di aver mentito: la forza di chi accoglie una debolezza vale da sola come dieci verità.

«Sei innamorata?» Le chiedo. La mia scaletta, a questo punto già violata, non
prevedeva preliminari. Le sue risposte, d’altro canto, non prevedono argini. Il secondo sorriso: «Io sono sempre innamorata».

Mi racconta dei propri tradimenti passati, di aver cercato di comprenderne il perché. Mi racconta ciò che dicevano le persone con le quali si confidava, ripetendo come un mantra quelle che capisco esser state le “solite frasi” per tanto tempo: “è che non hai ancora trovato la persona giusta”, “è che non è il vero amore, è che questa è una fase, ma vedrai, passerà”. “È che sei un’egoista“.

Egoista. È curioso come cerchiamo sempre di dividere il mondo tra altruisti e egoisti, come se ci fosse davvero la possibilità di fare qualcosa che non risponda a un bisogno per se stessi, fosse anche solo quello di sentirsi gratificati. Così marchiamo come egoista ora chi ama poco, ora chi ama un po’ troppo.

«Così un giorno mi sono detta: e se provassi a non mentire?». Già, e se ci provassero tutt*? Mi chiedo anche io, fra me e me.

«La prima persona alla quale, innamorata, dissi che non poteva essere l’unico amore nella mia vita sparì, da un giorno all’altro, davanti a tanta sincerità». «E allora cosa hai fatto?» incalzo io. «Allora ho smesso di mentire».

La verità è quella cosa che dici quando non hai paura delle conseguenze. «La conseguenza era essere me stessa, anche a costo di perdere una persona amata. Oh, non ne potevo più di avere paura!».

Essere se stessa, per Samanta, ha significato porre fine alle relazioni monogame e
parlare apertamente alle persone a lei vicine. Parlarne con i conoscenti vuol dire
esorcizzare la paura: paura dei pregiudizi «che io per prima avevo nei miei confronti,
pensando di essere una persona sbagliata. Perché ero attratta da più persone allo
stesso tempo? Perché, pur amando, non provavo gelosia?».

Il suo racconto prende il ritmo di una cascata. Le paure piovono nuovamente sul tavolo, ma in forma passata, seppur ancora concitata.

«La cosa peggiore era lo spauracchio, paventato da diverse persone: comportandomi in questo modo, mi dicevano, non sarei mai riuscita a costruire una famiglia. “Non potrai mai crescere dei figli basandoti su questi principi, con questo atteggiamento”, mi ripetevano. Ma quale atteggiamento? Io sono sempre stata poliamorosa, anche prima di sapere dell’esistenza di questa parola. Anche da bambina. Sia quando studiavo e lavoravo, sia quando vivevo da pendolare in due città diverse che quando convivevo con il mio compagno, o quando stavo a casa disoccupata». E, nuovamente, un sorriso.

Ma basta la verità per rimettere tutto a posto, per essere accettat*? «No, non basta», sorseggia. Perché si può scegliere di essere aperti e leali, di condividere con altr* la propria volontà e la propria natura, ma le esperienze di dolore possono esserci comunque.

Perché è difficile essere poliamorosi in una società monogama, spesso omofoba, patriarcale e “cattocratica”, in cui si è cattolici dentro anche quando ci si dichiara atei.

«Io ho subito delle discriminazioni, talvolta anche delle offese dalle persone care, anche se non mi è mai stato impedito formalmente di essere ciò che sono. L’importante ora, per me, è sempre affrontare l’argomento con lealtà, con tutte le persone con cui mi relaziono. C’è comunque chi prova a nascondersi, dietro un’etichetta o un’altra, a volte proprio dietro quella del poliamore. Chi prova a fare dei calcoli opportunistici pur di non restare sol* e si ritrova più sol* di prima».

«E allora, come si fa?» chiedo, appassionata come davanti a un reality. Stavolta ride. «Se ne parla! In fondo in tutte e relazioni del mondo è necessario discutere, stabilire regole, trovare compromessi. A volte si hanno perfino delle piacevoli sorprese, specie da parte di chi ci vuole realmente bene.»

Le faccio le ultime domande, prima di congedarla: «Oltre che poliamorosa, ti definiresti anche queer?».

«Sì perché è qualcosa che mi permette di non definirmi, di mettermi in discussione, di poter esistere all’interno di uno spazio ricco di eccezionali eccezioni. Ma questo è indipendente dal mio modo di vivere le relazioni, dal poliamore: ho sempre trovato faticoso stare dentro una definizione dell’orientamento sessuale, o perfino d’identità di genere. Questa non-definizione, mi permette anche di accettare che fino a oggi per me è stato così ma, essendo in continua trasformazione, il mio orientamento, il mio modo di concepire le relazioni e la mia identità, potrebbero cambiare, evolversi, trasformarsi».

«Sono stata all’ultimo Pride e mi sono scritta sul corpo uno slogan sul poliamore. Per me il Pride è un modo di dimostrare che si può essere “diversamente” felici. Non c’era nessuna delegazione poli, ma non mi stupisce. Siamo ancora un po’ una nicchia della nicchia… ma anche mostrare semplicemente di esistere può essere un modo per dire a tutt* coloro che si sentono sbagliat* che non devono avere paura».