È passata quasi sotto silenzio la notizia che nella data simbolica del 25 novembre a Venezia è stato firmato un “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini“.
Il documento – che ha tra le realtà promotrici l’associazione GiULiA (Giornaliste Unite Libere e Autonome) e la commissione Pari Opportunità della FNSI (il sindacato nazionale dei giornalisti) – ha già centinaia di firme e qualsiasi professionista del settore può aggiungere la propria inviando una mail a cpo.fnsi@gmail.com.
Il Manifesto di Venezia consiste in un decalogo di priorità da seguire nel lavoro giornalistico “per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche“.
Da giornalista e femminista, credo che si tratti di una presa di coscienza importante: dopo anni spesi a battersi su questi temi nelle redazione e nei corsi di formazione (incontrando spesso molte ostilità), grazie soprattutto all’instancabile lavoro delle colleghe di GiULiA, finalmente è stato messo nero su bianco l’apporto fondamentale del linguaggio e della comunicazione nella lotta contro la violenza di genere.
“Impegno comune – si legge nel Manifesto – deve essere eliminare ogni radice culturale fonte di disparità, stereotipi e pregiudizi che, direttamente e indirettamente, producono un’asimmetria di genere nel godimento dei diritti reali”.
La parità, dunque, per essere effettiva e non rimanere sulla carta, deve essere coltivata, prima di tutto da un punto di vista culturale.
Per chi si occupa di questioni di genere non è certo una novità, ma lo è che se ne parli in un documento che richiede ufficialmente un coinvolgimento dell’Ordine dei giornalisti e dei professionisti e delle professioniste dell’informazione sul piano deontologico.
Il mio auspicio è che il Manifesto di Venezia non rimanga lettera morta, ma rappresenti un punto fermo da cui non si possa più tornare indietro, una presa di responsabilità per rimettere in discussione pratiche e modelli del giornalismo che continuano ad alimentare disparità e, in alcuni casi, la cultura della violenza che è alla base di ogni violenza di genere (non solo contro le donne: trovo significativo che nel testo si faccia riferimento anche al rispetto delle identità delle persone trans, anche se vengono chiamate in modo poco corretto “transessuali”).
Ecco i dieci punto del documento, che si può scaricare integralmente a questo link:
1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato
anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e
assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;
3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche
istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale,
sociale, culturale;
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione,
ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom;
5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto
donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica,
psicologica, economica, giuridica, culturale;
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e
di serie B” in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza;
7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di
prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere;
8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla
violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori
ascolti) della violenza sulle le donne;
10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:
a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o
svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a
crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale
o “oggetto del desiderio”;
d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando
la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e
così via.
e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da
chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.