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Paola di Nicola: l’importanza di definirsi “una” giudice

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Paola di Nicola non ha aspettato il verdetto dell’Accademia della Crusca per definirsi “una magistrata”. Già nel 2012 anticipava la battaglia di Laura Boldrini per l’uso del femminile con il suo libroLa giudice“, esito di un processo di crescita e formazione personale che l’ha portata a definire se stessa come donna anche nell’ambito di una professione di solito declinata esclusivamente al maschile.

Il volume di Paola Di Nicola è, insieme, un romanzo di formazione e un saggio di approfondimento attorno ad una tematica importante, ancora troppo poco considerata dal dibattito contemporaneo: il pregiudizio di genere.

Cosa significa essere una donna all’interno del sentire comune? Quali prerogative possiede il genere femminile quando si “scontra” col mondo del lavoro? Queste sono le domande che l’autrice si pone attraverso un incedere che ha quasi il peso di una biografia.

Il percorso di Paola di Nicola – che l’autrice stessa descrive saggiamente come «la caduta in un pozzo» – intorno ai pregiudizi di genere e a cosa significhi, per una donna, decidere di scegliere una professione connotata al maschile, ha inizio con alcune riflessioni maturate a proposito della “pettina” da mettere sopra la toga che la madre decora appositamente per lei con merletti antichi appena avuta la notizia del superamento del concorso.

È proprio la madre, in modo simbolico, a preannunciarle che avrebbe dovuto far propria quella toga e quella professione differenziandosi dal padre – anch’egli magistrato – e dagli altri uomini che l’avevano preceduta.

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Il racconto è un susseguirsi di ricordi assolutamente privati: i primi contatti col mondo della magistratura grazie al padre e ai numerosi incontri con tanti colleghi che la giovane Paola, all’epoca solo una studentessa delle scuole medie – apprezzava e stimava come uomini di cultura e di grandi ideali.

È dal momento in cui, superati gli esami e i concorsi, Paola può cominciare a indossare la toga che inizia a percepire un mondo molto diverso da quello tratteggiato in gioventù grazie alle sue frequentazioni. Scopre, demolendo le sue certezze e guardando in faccia la realtà, che la magistratura non è un mestiere per donne o forse, ampliando ulteriormente il proprio sguardo, si accorge che nessun luogo, in Italia, è un luogo accogliente per le donne.

Ne prende atto ricordando le continue molestie subite quando – appena adolescente – prendeva l’autobus per andare a scuola ed era costretta a sentire i corpi di tanti uomini sfiorarla, palpeggiarla, stringerla, approfittando della calca sul mezzo e della sua impossibilità di muoversi.

Lo visualizza ripercorrendo il suo percorso professionale, fatto di uomini – titolari degli studi in cui cominciava a muovere i primi passi come avvocato – che le chiedevano se fosse sposata o volesse far figli perché, si sa, le donne “tendono ad approfittarsene”. O, ancora, di uomini come Gennaro, malavitoso indagato per reati ambientali, che si poneva nei suoi confronti in atteggiamento di sfida come se la sua virilità potesse collocarlo «un gradino, una montagna, una storia millenaria» sopra di lei, che aveva il diritto e il dovere di giudicarlo.

Queste considerazioni, vissute in prima persona e restituite al lettore in modo sincero – quasi come fosse il tentativo di un giudice di dis-velarsi facendo cadere la propria toga «che non conosce e riconosce la differenza tra uomo e donna» – si completano poi con una lettura storica e politica.

L’Italia, culla del diritto, ha permesso l’accesso alle donne in magistratura solo nel 1963 e, nonostante oggi le donne magistrato siano il 46% del totale dei magistrati italiani, solo l’8% presiedono un Tribunale o altre posizioni di prestigio.

Nel codice penale la donna è sempre e solo la sua sessualità: sparisce come persona, compare solo come corpo. Lo sa bene chi ha visto un documentario registrato dalla rete Rai nel ’78 in un’aula del tribunale di Latina,”Processo per stupro” (di cui Pasionaria ha già parlato qui), oggi una fonte storica che ricorda a tutti e tutte quanto sia stato possibile svilire, demolire, annullare, condannare una donna indagando con domande ignobili e non pertinenti la sua sessualità, la sua identità.

Se, oggi, le cose stanno lentamente cambiando lo si deve alle donne che hanno deciso di lavorare sulla propria identità di genere piuttosto che sull’assimilazione di un modello imposto.

Da qui l’importanza del lavoro sulla lingua italiana: scegliere di declinare le professioni al maschile o al femminile non è un vezzo, è una necessità per garantire a tutte e tutti uguale diritto di cittadinanza. Perché la lingua è il riflesso delle nostre abitudini, delle nostre regole sociali e dentro al linguaggio possono annidarsi secoli di pregiudizi

Il percorso di riflessione di Paola – cominciato proprio da quella “pettina” consegnatale dalla madre – si conclude con un altro gesto, questa volta non più esclusivamente simbolico. È il gesto di andare in tipografia e richiedere un timbro con la dicitura “la giudice, Paola Di Nicola”. Si tratta di un gesto di rottura che risulta ai più (o, perlomeno, alla tipografa) ancora incomprensibile, quasi frutto di un errore di battitura. È invece, per LA giudice, il segno di una conquista, di una nuova maturità.

È l’aver finalmente trovato uno sguardo capace di mettere pace dentro se stessa – non più scissa tra un’immagine pubblica e una privata, una maschile e l’altra femminile – e di portare alla luce nuove considerazioni, prima fra tutte l’importanza del riconoscimento della propria identità.

Perché è l’inclusione – e non l’assimilazione – che permette di percorrere la strada dei diritti portando un contributo in termini di crescita e sviluppo all’intero paese.