Il diritto alla salute per le persone trans non è così scontato. Un recente studio europeo ha evidenziato, tra le altre cose, un disagio particolare delle persone non binarie e una discriminazione delle e de* sex worker.
Sono i risultati della ricerca “Overdiagnosed, underserved” (Troppe diagnosi, pochi servizi) portata avanti da Transgender Europe (TGEU), organizzazione europea che si occupa dei diritti delle persone transgender, che ha interrogato sia gli utenti che i provider di servizi per la salute e che ha visto coinvolti 5 paesi: Georgia, Serbia, Svezia, Polonia, Spagna. I paesi sono stati scelti appositamente in quanto rappresentativi della diversità della popolazione transgender a livello europeo. La popolazione transgender è stata suddivisa in 4 sottogruppi: donne trans, uomini trans, non binary e altro.
Tra le principali criticità è emerso che la popolazione non-binary, che ammonta circa ad 1/3 dei rispondenti, è quella più a rischio per la salute mentale, quella che si rivolge meno a psicologi e medici anche in caso di bisogno o in caso di tentato suicidio e/o pensieri suicidi, quella che sperimenta un livello di benessere auto-riportato minore rispetto agli altri gruppi.
Tutta la popolazione transgender, inoltre, presenta un livello di salute e benessere peggiore rispetto alla popolazione cisgender in tutti i paesi analizzati e tende a rimandare l’accesso ai servizi sanitari sia per timore del pregiudizio da parte del personale sanitario che per poca fiducia nel tipo dei servizi offerti.
I problemi maggiori riguardano i medici curanti e gli specialisti per la salute mentale seguiti dagli specialisti e dal personale sanitario non medico. I problemi riportati riguardano: l’ignoranza sulle questioni trans, l’uso di un nome o pronome sbagliato, la curiosità morbosa, l’ignorare i bisogni speciali, pressione per test e cure psicologiche, il bisogno di cambiare il medico per le sue reazioni negative, condivisione di informazioni riservate sul proprio genere, rifiuto di cura, ritardo nella cura, abuso verbale.
Quando la persona transgender deve affrontare oppressioni multiple, l’esclusione dai servizi sanitari diventa più significativa. È il caso di persone trans diversamente abili, giovani, povere, disoccupate ma è anche e soprattutto il caso de* sex worker che sperimentano più discriminazione rispetto alle altre categorie dal personale sanitario.
Nella popolazione dell* sex worker si osserva, inoltre, una prevalenza di persone non giovani e/o con difficoltà economiche. Tra le motivazioni addotte per occuparsi di sex work è emerso anzitutto un reddito integrativo, ma anche la mancanza di alternative, il fatto che in quell’ambito si sentono accettate per quello che sono e che lo preferiscono ad altri tipi di lavoro.
Dal fronte non-binary la buona notizia è che la maggioranza della popolazione transgender (79.4%) e la maggioranza del personale sanitario (78.2%) ritiene che sarebbe positivo avere una terza categoria legale oltre a maschio e femmina nel proprio paese ed entrambi i gruppi pensano che chiunque dovrebbe poter cambiare nome indipendentemente dall’età (94.2% utenti e 73.4% providers).
I risultati paese per paese
Nella comparazione tra gli stati il peggiore è la Georgia, dove il 50% della popolazione trans ha tentato una volta nella vita il suicidio, la popolazione transgender è impiegata in lavori sottopagati per cui non vengono richiesti documenti – perché non esiste una norma che garantisca la modifica anagrafica – e le procedure mediche per la transizione sono interamente a carico dell’utente.
La Spagna avendo un sistema sanitario che delega alle regioni, presenta grosse disparità nella qualità e quantità di offerta dei servizi per le persone transgender: si passa da centri all’avanguardia alla totale assenza di servizi. In questo la Spagna presenta analogie con il servizio sanitario italiano e mi ha colpito quanto anche in Spagna il federalismo regionale contribuisca a creare una disparità di accesso ai servizi rendendo necessario lo spostamento qualora l’utente risieda in zone dove non ci sono servizi o dove non sono all’altezza dei suoi bisogni.
La Svezia, nonostante dal 2015 abbia adottato delle linee guida non vincolanti per permettere alla popolazione non-binary di accedere alla transizione, non le ha ancora implementate. In Serbia esiste un solo team per tutto il paese che si occupa di genere e viene ancora richiesta la sterilizzazione per accedere ai servizi.
La sfida della depatologizzazione
Le considerazioni più interessanti della ricerca, però, riguardano la depatologizzazione, che auspica una visione delle persone transgender come persone autonome e in grado di autodeterminarsi, una visione quindi scissa da diagnosi cliniche che permetta di accedere ai servizi senza la condizione di terapie psicologiche.
Dal 2018 con l’undicesima edizione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11) da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità le precedenti diagnosi di transessualismo verranno sintetizzate in “incongruenza di genere in adolescenza ed in età adulta” (GIAA) e non faranno più parte della sezione relativa ai disturbi mentali e comportamentali perché è risaputo a livello scientifico che essere transgender ha anche delle basi biologiche e che gran parte dei problemi di salute mentale prima categorizzati come disturbo e imputati alla persona sono in realtà un effetto dello stigma sociale.
Sia gli utenti che i provider di servizi hanno mostrato accordo sull’effetto patologizzante di una diagnosi psichiatrica. Ma la ricerca ha evidenziato la ritrosia dei professionisti nel dare spazio all’autodeterminazione delle persone trans.
Nonostante il personale sanitario riconosca il proprio ruolo di gatekeeper (chi ha il potere di negare o fornire un servizio) per la salute, la maggioranza dei professionisti fa comunque resistenza a riconoscere alle persone trans la capacità di sapere chi sono e cosa vogliono senza doverlo dimostrare ad un professionista prima. La maggioranza, insomma, considera necessario il parere di un professionista per l’accesso agli ormoni e alla chirurgia e ritiene necessario il real life test (test di vita reale).
Che cos’è? Il paternalismo e l’infantilizzazione delle persone trans durante il “test di vita reale” è più comprensibile attraverso un’analogia: immaginate una persona miope che va da un ottico e si sente dire che sì, effettivamente è miope ma prima di fornirle le lenti deve provare ad andare in giro solo con la montatura per un periodo per capire se veramente vuole gli occhiali. Alle persone trans viene chiesto di vivere per un periodo a tempo pieno come se il loro genere fosse già quello che desiderano (ma senza modifiche al corpo e senza documenti che attestino la riattribuzione anagrafica) per dimostrare al professionista che vogliono veramente transizionare e che non cambieranno idea. È ovviamente il periodo in cui sperimentano picchi di stigma e stress.
I professionisti tendono inoltre ad essere più scettici della popolazione transgender sulla necessità di fornire bloccanti nel periodo pre-puberale e ormoni nel periodo post-puberale ai bambini gender variant e agli adolescenti transgender anche se una netta maggioranza è a favore degli stessi.
La ricerca si conclude con delle raccomandazioni. Le principali riguardano la formazione obbligatoria del personale sanitario (la maggioranza ha seguito corsi o si è informata autonomamente sostenendone le spese), la necessità di snellire le liste di attesa, la gratuità dei servizi, formazione e consapevolezza sull’esperienza specifica della popolazione non-binary e mettere l’autodeterminazione delle persone transgender al centro dei servizi offerti.
Per offrire alla persona transgender un servizio incentrato sui suoi bisogni specifici è infine auspicabile anche scindere il percorso legale da quello medico, eliminando la condizione di trattamenti ormonali/chirurgie per il cambio di nome o per la rettifica anagrafica del sesso.