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Oltre Warhol: in mostra a Londra il lato femminista della Pop art

Gli anni ’60 e ’70 appaiono ormai lontani ma non è mai troppo tardi per arricchire la nostra conoscenza su uno dei movimenti artistici più amati, odiati, invidiati: la pop art. Grazie ad una mostra fino al 24 gennaio alla Tate Modern di Londra, dal titolo “The world goes pop” (Il mondo diventa pop), dopo anni di ricerche nel profondo di questo movimento e volontà di ampliarne la critica d’arte, sono venute alla luce opere di artiste bistrattate e dimenticate, che con le loro opere riescono a donare una visione più ampia, ancor più interessante di quel fenomeno culturale che è stato la pop art.

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Isabel Olivier, COSMETICA, dalla serie La Mujer, 1971

 

Per 5 anni la curatrice Jessica Morgan e i suoi collaboratori si sono impegnati duramente per  riportare alla luce un mondo di artiste emarginate da una corrente che ha glorificato il panorama maschile e anglo-americano: dopo 50 anni arrivano i riconoscimenti anche per loro.

Tra cui spicca Judy Chicago che, in un’intervista sul The Guardian in merito all’esposizione londinese, esclama, a proposito del sessismo di quegli anni: “Ci si esponeva a un clima che era incredibilmente inospitale per le donne. E ‘stata una vera lotta!”. Se proponeva arte contenente uteri e seni i suoi insegnanti lo detestavano, racconta Chicago. Era meglio cambiare soggetto per riuscire a laurearsi.

Per questo a Londra si sta scrivendo un’altra storia del pop, fatta di vissuti personali diversi tra loro, di reazioni al maschilismo, di apparati riproduttivi impressi con lo spray e installazioni provocatorie, provenienti non solo dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna, ma – sorpresa – da ogni parte del mondo. Tra le 160 opere in esposizione vi sono quelle di artiste, ma anche artisti, provenienti da Europa, America Latina, Asia e Medio Oriente.

Questo a dimostrare che non c’erano solo ragazzi bianchi a criticare/celebrare il consumismo: le voci che emergono dalle opere provengono da donne, uomini, di ogni parte del mondo e criticano la politica americana, il sessismo e la reificazione della donna.

L’artista francese Dorothee Selz, anche lei in mostra, interpreta in un’opera “la pin up perfetta”, ironizzando sul ‘ready made’ non a proposito di un prodotto industriale ma della donna stessa, pronta ad essere mangiata e fagocitata dalla cultura maschilista che la pretende impeccabile, a suo uso e consumo.

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Dorothée Selz ‘MIMÉTISME RELATIF – Femme avec bottes et lampadaire’, 1973

Il messaggio suona potente: tutto quanto già sappiamo della pop art si arricchisce moltissimo. La reazione artistica in mostra rappresenta una critica ancora più profonda alla cultura commerciale statunitense, perché chi reagisce è un artista sudamericano, per esempio, o una donna, e porta alla luce problematiche sociali molto forti.

La pop art, grazie a questa mostra, arriva alla sua reale consacrazione, riproducendo criticità e controsensi di una cultura che tuttora ci appartiene, ma fa di meglio: grazie allo sguardo degli artisti e delle artiste esposti ci offre nuove riflessioni per fare i conti con la società. L’arte fa davvero il suo mestiere, non ci uniforma ma ci lega gli uni agli altri, mettendo in evidenza il significato della parola pop: popolare, di tutti quanti. Non di una massa omogenea, ma di ognuno di noi, a formare una catena di menti pensanti e persone attive.