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Quando i partiti strumentalizzano le nostre lotte

Omonazionalismo, pinkwashing, folklorizzazione. Quante volte ci è capitato di ritrovare i temi per cui ci battiamo con il nostro attivismo svuotati, distorti ed edulcorati durante le campagne elettorali? Ecco una riflessione di due attiviste transfemministe lesbiche/queer sarde a partire da un manifesto elettorale dei Giovani Democratici di Nuoro che ritrae due uomini che si baciano in abiti tradizionali

partiti lotte
Dettaglio del poster dei Giovani Democratici di Nuoro

Anche a Nuoro quest’anno si tengono le elezioni comunali e di recente è apparsa una locandina dei Giovani Democratici della lista del candidato Carlo Prevosto, nella quale sono raffigurati due uomini con indosso un abito tradizionale sardo nuorese che si danno un bacio.

Il testo recita: “Orgogliosi delle nostre tradizioni, orgogliosi delle nostre diversità”. E poi ancora: “Non bastano delle leggi contro un fenomeno già sviluppato. Servono soluzioni radicate. L’omofobia è soprattutto un problema cittadino”.

Come attiviste transfemministe lesbiche/queer sarde, guardiamo la locandina e ci viene il prurito.

Il gioco è facile, talmente facile da tacitare le critiche sul nascere, perché chi mai potrebbe contestare questo gesto di civiltà in un territorio che ne ha apparentemente così estremo bisogno? Eppure spesso “ciò che sembra non è”, e molto si muove dietro l’ovvio.

Che cosa c’è scritto fra le righe di quell’immagine?

A chi strizza l’occhio?

Che repertorio di immagini e parole usa?

 

Folklorizzazione e omonazionalismo vs anticolonialismo

Utilizzare l’abito tradizionale e il rimando alle “nostre tradizioni” senza assumersi una visione e una politica anticolonialista e/o indipendentista ma al contrario fermamente italianista – termine con cui si intende la politica di partiti presenti in Sardegna come franchising dei partiti italiani – è la solita minestra rimasticata che in Sardegna viene proposta ad ogni campagna elettorale, utilizzando scientemente quelli che sono immaginari, codici e termini che in linguaggio socio-antropologico fanno parte del percorso di costruzione di una nazione.

Basta prendere in mano un manuale di antropologia per collocare questa operazione con grande facilità.

È una pratica comune a qualsiasi realtà politica, ma che e “legittima” solo nelle mani delle realtà anticolonialiste ed indipendentiste, siano esse di movimento o partitiche; in caso contrario è evidente come sia strumentale usare qualcosa che di pancia smuove quel sentimento identitario comune praticamente a chiunque su quest’Isola, ma che se non politicizzato e così presentato rimane un rimando folklorico superficiale e nazionalista nel senso negativo e destrorso del termine.

Il gioco ammiccante del folklore strizza l’occhio a un vago senso di appartenenza identitaria, ma che nulla smuove in merito alla dimensione politica di quel legame, che è un legame fatto di storia, dominazioni, subalternità e di resistenze.

Nel suo lavoro di analisi sul modo in cui, a seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, la comunità LGBTQI+ nordamericana è stata mobilitata nella costruzione della nazione – civile e progredita – contro “gli altri” barbari e terroristi, la docente di teoria queer e studi di genere Jasbir Puar ha coniato il termineomonazionalismo” per descrivere lo sviluppo negli USA di una strategia in base alla quale, tutelando i diritti delle persone LGBTQI+ e sottolineando la tolleranza e l’accettazione nei loro confronti, “lo stato include le minoranze sessuali nella costruzione di un nazionalismo che vede il paese d’appartenenza dei soggetti LGBTQI+ come il migliore nella difesa di diritti umani e libertà”.

In questo contesto, il concetto di omonazionalismo aiuta a inquadrare la seduzione verso le comunità LGBTQI+, invitate a mobilitarsi (cioè votare) nel nome del bene comune. Ripagate dalla moneta della visibilità e normalizzazione le comunità LGBTQI+ potranno così comodamente sedere nella schiera dei buoni cittadini.

Cosa contiene o non contiene questo accordo (o forse meglio chiamarlo ricatto)?

Qual è la posta in gioco?

Perché solo ora?

Street art di Moju Manuli alla Galleria del Sale di Cagliari, Queeresima 2015 | Foto di Moju Manuli

Pinkwashing

Ancora una volta ci troviamo di fronte all’uso dei corpi e delle vite altrui per una becera operazione di pinkwashing (letteralmente: lavaggio nel rosa).

Questo termine, ormai largamente usato, nasce a partire dalle politiche tramite cui il governo di Israele ha sempre cercato di “ripulirsi” per gli orrendi crimini di cui si macchia. Sostenendo la popolazione LGBTQI+ il governo cerca di dare un’immagine democratica del paese, con lo scopo di contrastare lo sdegno crescente dell’opinione pubblica internazionale per la sistematica violazione dei più elementari diritti umani della popolazione palestinese.

I movimenti queer transnazionali hanno chiamato questa strategia “pinkwashing”, in analogia con il “greenwashing”, operazione di copertura attuata da aziende altamente inquinanti per ripulire la propria immagine attraverso una qualche azione ambientalista.

Per quanto riguarda l’uso delle istanze LGBTQI+ che vengono riassunte nel manifesto dei Giovani Democratici con “omofobia” e l’utilizzo dell’arcobaleno/rainbow (ah l’avete messo al contrario raga, il rosso va in alto) di pinkwashing si tratta. Semplice, spesso invisibile.

Il PD, partito di riferimento dei Giovani Democratici (anche se a Nuoro corrono per conto loro) non è interessato a sostenere le lotte delle nostre comunità, e se lo fa è in maniera del tutto strumentale, o agendo nei termini di quello che chiamiamo omonazionalismo.

Il PD è un partito che ha vissuto negli anni una storia razzista, borghese e classista e che, come tutti, ben si muove nel nostro sistema patriarcale e capitalista. Proprio il PD ha firmato su di noi delle leggi incomplete, depotenziate e di serie “B”, norme che dovremmo considerare come strumenti di base per una piena cittadinanza e non come delle concessioni del potere, per darci dei contentini e assicurarsi la “nostra” fetta di elettorato.

Usa da sempre questo pinkwashing in maniera sistematica per rifarsi il trucco mentre contemporaneamente smantella il sistema di tutela del lavoro, porta avanti politiche devastanti verso le persone migranti etc. e usa i corpi delle persone LGBTIQ+ e delle donne come strumento di ricatto, ci propone come soggetti deboli, da tutelare, facilmente strumentalizzabili per giustificare le proprie politiche (come tutta una serie di altri partiti, per inciso).

Non abbiamo dimenticato gli accordi con la Libia, il colpo mortale alla legislazione sul lavoro, la complicità, nelle amministrazioni locali, nella redazione di ordinamenti repressivi, razzisti e sessisti.

Non siamo soggetti deboli, né minoranze, né oggetto di scambio elettorale.

Fa sorridere che nel manifesto ci sia scritto “Non bastano delle leggi”, con riferimento a leggi inadeguate dal PD stesso messe sul piatto, “contro un fenomeno già sviluppato”.

Ma ite sezis nande?

Questo fenomeno di cui parlate è alla base, non si è magicamente sviluppato in tempi recenti. Il complesso di desideri, bisogni, rivendicazioni espressi dalle comunità LGBTQI+ non si limita alla tematica dell’omofobia (a cui troppo spesso il PD cerca di ridurre: vedi la proposta di legge Zan), ma riguarda una condizione strutturale su cui le identità di genere, le scelte in materia di affettività e sessualità, le forme relazionali sono costruite. Che l’eterosessualità obbligatoria produca il mondo relazionale lo diceva già Adrienne Rich nel 1980: tutto ciò che eccede quella norma è tuttora considerato devianza, oggetto di esclusione, abuso, violenza.

La locandina proclama: “Servono soluzioni radicali.”

Tipo? Delle ronde stile fascisti? Di che proposta si tratta? Questa frase suona minacciosa ma non si aggancia a nessuna proposta concreta. Suona come la pubblicità della derattizzazione e fa rabbrividire in un manifesto elettorale.

Le soluzioni radicali servono ma riguardano la costruzione di un mondo nel quale, fin da piccoli/e/x, sia garantita la possibilità a ognuna/o/x di costruire liberamente la propria vita, scegliere i propri percorsi, godere del diritto di esistere.

Poster art di Moju Manuli nelle strade della Sardegna | Foto di Moju Manuli

“L’omofobia è soprattutto un problema cittadino” leggiamo ancora: problema cittadino in che senso?

Questa frase è un’affermazione falsa su più punti: se consideriamo il contesto sardo e nello specifico nuorese barbaricino, l’omo-lesbo-bi-transfobia (attenzione ché ce la potete fare a imparare la parola completa con la sua molteplicità di significati) è, come ovunque, diffusa a tappeto non solo nel contesto cittadino di Nuoro ma certamente anche in quello paesano.

Questo perché è parte di una visione patriarcale della società che investe anche la società e cultura sarda.

È scorretto, falso, quindi che riguardi lo specifico di una piccola realtà cittadina. È invece parte di un sistema più ampio che viviamo da qualcosa come 4000 anni – quello patriarcale – ed è quindi un problema strutturale, che di certo non si cambierà con una legge (seppur utile) ma con una rivoluzione culturale e lotte quotidiane che la manipolazione elettorale portata in questo manifesto certo non aiuta.

Questa retorica strizza l’occhio ai discorsi coloniali che ancora individuano i barbari, gli incivili, i meno progrediti in alcune aree della Sardegna (per non dire in tutta).

Una retorica che ricorda fin troppo bene i discorsi che nella civile Europa si sono prodotti contro le donne col velo, o “i musulmani” tacciati di maggiore violenza contro le donne e le persone LGBTQI+, chiudendo gli occhi sulla pervasività di quella stessa violenza nelle realtà sociali occidentali, dove una donna su tre continua a essere oggetto di molestia, abuso, quando non morte per mano del proprio compagno.

Che il problema dell’omo-lesbo-bi-transfobia esista e riguardi la vita delle persone LGBTQI+ quotidianamente è un dato, ma che questo sia un elemento sistemico è un dato ancora più importante.

Non possiamo essere complici di forme striscianti di colonialismo, che tuttora rappresentano e definiscono i nostri contesti territoriali, impedendogli spesso di fatto di poter esprimere una realtà politica e comunitaria che c’è, ma spesso non si vede.

 

Le lesbiche (non) esistono

Le femministe, si sa, sono guastafeste. Non ci stupisce che nello sforzo fatto per parlare di omofobia siano stati scelti due uomini. Tuttora, se e quando se ne parla, sono solo gli uomini ad apparire. E le donne? E le lesbiche? Nella rappresentazione maggioritaria, non esistono.

Eppure, quando le forze politiche manifestano questa grande – supposta – sensibilità per l’esistenza delle persone LGBTQI+ ci piacerebbe fossero in grado di non riprodurre la rimozione delle donne e delle lesbiche dal discorso e dall’immaginario. Da lungo tempo i movimenti lesbici e femministi hanno preso parola, rivendicato spazio e visibilità, costruito modi di vita e politica. Non solo uomini dunque, ma anche donne, persone trans, persone non binarie.

Non si tratta di questioni di lana caprina.

Queste rappresentazioni, soprattutto per chi è in posizione di potere, producono il mondo. E ciò che non si vede, nella maggior parte dei casi, non è previsto che esista.

Possiamo pensare che sia stata scelta l’immagine di due uomini perché va ad intaccare direttamente l’immaginario macho barbaricino dell’uomo virile, col pelo nel cuore, ovviamente etero-cisgender, un’immagine stereotipatissima che in parte abbiamo introiettata, come lo stereotipo del pastore etc.

In questo caso un’immagine “maschile” da fastidio in modo diverso rispetto ad una “femminile” ma entrambe le letture nascondono una visione omo-lesbofobica: nel primo caso un vero uomo non può essere gay, e se lo è non può incarnare “La Tradizione”, nel secondo caso c’è la solita squallida visione delle lesbiche da immaginario porno, solleticanti per lo sguardo maschile, alla fine della fiera comunque donne riconducibili all’ovile quando avranno trovato l’uomo giusto che farà capire loro cosa è meglio per loro.

Gli uni stigmatizzati, le seconde mistificate, entrambi invisibilizzati/e.

 

Autorappresentazione o appropriazione culturale?

Unica nota positiva: un’immagine di affermazione positiva ad accompagnare un discorso anti-omofobo invece che ad esempio due uomini brutalizzati.

Peccato quell’immaginario non sia farina del vostro sacco.

Poster art di Moju Manuli nelle strade della Sardegna | Foto di Moju Manuli

Per chi si stupisce di un’immagine gay in abiti tradizionali e ne parla come di una novità…. abbiamo una notizia: immagini simili sono già circolate a partire dalle realtà LGBTQI+, e ben vengano delle altre se si tratta di autorappresentazioni o comunque di immagini non volte alla strumentalizzazione elettorale.

Tutto il resto si può additare come appropriazione di immaginario altrui per i propri fini politici, ed è molto vicino al concetto di appropriazione culturale fatta da Paesi in posizione di dominio su altri “dominati”, case di moda lussuose verso abiti tradizionali di varie popolazioni a livello globale, “cultura occidentale” verso musiche, pratiche e altri aspetti culturali di popolazioni colonizzate, persone privilegiate come quelle etero-cisgender verso persone appartenenti alle realtà lgbtiq+, partiti politici verso comunità in lotta.

 

Omo-lesbo-bi-transfobia, tumori e benaltrismo

Sentiamo di dover spendere due parole anche per rispondere all’ondata di benaltrismo che ha invaso i social, anche per mano di persone a noi vicine, di compagni e compagne.

La questione è stata presto ridotta al dibattito omofobia si/omofobia no, oppure che a Nuoro non c’é nessun problema di omofobia, i problemi sono ben altri!

Il nostro messaggio è sempre lo stesso: imparate ad ascoltare e a non parlare per altre/i/x. Se volevate attaccare la campagna opportunista dei Giovani Democratici dimostrandovi aperte/i e con il polso della situazione cittadina, beh, lo state facendo male.

Riconoscere che le nostre realtà, quella nuorese in questo caso, abbiano reali problemi di omo-lesbo-bi-transfobia non c’entra nulla con lo sfascio della sanità sarda, interessarsi ad una cosa non esclude l’altra (non naramus de essere multitasking ma…).

Il fatto che per voi, evidentemente etero-cisgender, non esiste un problema di natura sessista e omolesbobitransfobica dimostra solo quanto questo disprezzo l’abbiate introiettato, quanto poco lavoriate per estirparlo.

Quanto poco conosciate della nostra realtà quotidiana mentre viviamo nello stesso luogo, facciamo cose simili, condividiamo le reti familiari, amicali, sociali, politiche, lavoriamo e magari come altre/i/x siamo precarie o invece siamo senza lavoro perché in Sardegna la disoccupazione è una piaga endemica e, attenzione, ci ammaliamo di cancro, altra grave piaga dovuta anche allo sfruttamento coloniale della nostra Isola (che comprende, fra le varie cose la sperimentazione del DDT nel dopoguerra da parte degli USA e l’occupazione militare da parte dello Stato italiano), e anche i nostri familiari si ammalano, abbiamo difficoltà a barcamenarci col servizio sanitario in questo duro momento di pandemia e così via.

Per cui ecco, non veniteci a insegnare quali sono le priorità nella nostra realtà quotidiana, nelle nostre vite, quale disagio ci colpisca di più e peggio. Chiedetevi invece come mai avete una scala di valori così escludente verso le parti di popolazione che voi stesse/i considerate “minoranze”.

Mettersi in ascolto, fare spazio a chi sceglie di parlare per sé autodeterminandosi, impegnarsi in alleanze con le comunità in lotta (anziché pescare al momento del bisogno – leggi campagna elettorale – qualche rivendicazione random), è forse un percorso più faticoso ma l’unico che ci sembri radicare una politica realmente alternativa. E trasformativa dello stato di cose presenti.

Maghiarjas