Ciclismo ed emancipazione femminile. Vi sembra un binomio singolare? Vi ricrederete scoprendo il progetto Voglio una ruota, nato per realizzare – attraverso una campagna di crowdfunding – un documentario sulle donne e la bicicletta e sul ciclismo femminile. È una storia che parte da lontano, e racconterà come un oggetto apparentemente innocuo come la bicicletta, possa essere complice di una rivoluzione.
Questa idea ci ha incuriosito e dopo aver visto il bellissimo video di presentazione, abbiamo deciso di intervistare Antonella Bianco, regista e ideatrice del progetto.
Antonella, cos’è “Voglio una ruota”, e perché è nato?
“Voglio una ruota” parla di come la bicicletta ha reso le donne più libere. È una storia d’amore non convenzionale, che ha inizio nell’Ottocento, quando la bicicletta fu inventata e divenne sin da subito metafora di libertà e progresso. Diventò anche un mezzo di emancipazione femminile, accelerando il processo che fece abbandonare le scomode gonne vittoriane per i ben più pratici pantaloni.
Le prime cicliste furono denigrate e osteggiate. La cultura del tempo consentiva l’uso del velocipede unicamente agli uomini: le cicliste venivano accusate di essere cattive mogli e madri, si credeva che con l’utilizzo della bicicletta sarebbero diventate isteriche e che potevano utilizzare il sellino per masturbarsi, e che il loro apparato riproduttivo sarebbe stato danneggiato.
Una storia attuale: perché questo mezzo, che le donne danno per scontato è ancora oggi vietato in molti Paesi. Ad esempio, le ragazze egiziane del gruppo GoBike del Cairo, quotidianamente sfidano il pregiudizio che considera inappropriato per una donna andare in bicicletta: affrontano le pericolosità della Capitale, dimostrando che comunque la bicicletta aiuta a spostarsi agevolmente e promuove così l’autonomia delle donne.
Nel nostro civilissimo Paese, tuttavia, le donne possono spostarsi in bicicletta e partecipare a competizioni sportive.
Ho conosciuto manager di squadre di ciclismo nel professionismo. Le atlete iniziano a gareggiare quando sono ancora giovanissime e conducono una vita particolare: la loro giornata è diversa da quella delle coetanee. Vanno a scuola e contemporaneamente si allenano duramente, sapendo già che riceveranno compensi economici esigui e, come in altri sport, esiste una concreta discriminazione fra uomini e donne nell’accesso al professionismo. Le donne sono relegate al mondo dilettantistico.
E’ assurdo pensare ad atlete, anche di altre discipline, come Federica Pellegrini, Flavia Pennetta, Francesca Schiavone, come “dilettanti”.
La legge sul professionismo sportivo del 1981 stabilisce che siano il Coni e le singole federazioni a decidere quali discipline sportive possono essere definite professionistiche: nessuna federazione permette loro di accedere all’attività professionistica. Le donne che fanno dello sport il proprio lavoro possono gareggiare solo da dilettanti.
Questo comporta pesanti ripercussioni nel trattamento economico e la negazione di diritti come garanzie previdenziali, sanitarie, contrattuali che sono previste per i lavoratori del settore. Le cicliste che ho conosciuto io non guadagnano più di quattrocento euro al mese, e magari alla soglia dei trent’anni abbandonano tutto perché vogliono avere un bambino: devono spesso impegnarsi a non restare incinte durante la loro attività, e quando i progetti personali si scontrano con questo diktat, rinunciano anziché restare nel far west delle tutele assenti.
Cosa racconterete nel vostro documentario?
Parleremo della storia di donne esemplari che hanno sfidato i pregiudizi. Annie Kopchovsky, ebrea lettone cresciuta a Boston, nel 1894 accettò la scommessa sul fatto che una donna non potesse fare il giro del mondo in bicicletta – come dieci anni prima aveva fatto Thomas Stevens – perchè una donna non sarebbe stata capace di badare a sé stessa in una simile impresa. Per riuscire, doveva tornare entro quindici mesi e avrebbe intascato cinquemila dollari. Un imprenditore locale finanziò con 100 dollari il suo viaggio con l’impegno di incollare sulla bicicletta il marchio Londonderry Lithia Spring Water Company. Vinse la scommessa e per tutti diventò Annie Londonderry.
Nel 1924, Alfonsina Strada (nomen omen, ndr) sfidò i colleghi maschi partecipando al Giro d’Italia, e il suo nome venne modificato in Alfonsin, per non acquisire troppa visibilità.
Parleremo anche di Eyerusalem Dino Keli, giovane ciclista etiope che contro il volere della sua famiglia ha raggiunto in bicicletta prima Addis Abeba e poi l’Italia pur di realizzare il proprio sogno.
Perchè c’è bisogno di un progetto come il vostro?
Perché quello del ciclismo femminile è un mondo sconosciuto, e soprattutto perché la discriminazione di genere nello sport è sotto gli occhi di tutti: la legge obsoleta del 1981 deve essere modificata e adeguata agli standard sociali e culturali che dopo oltre trent’anni si sono evoluti. E’ gravissimo che ai giorni nostri le professioniste siano ancora relegate per legge ad un ruolo dilettantistico e siano private di qualsiasi tutela contrattuale.
Qual è l’obiettivo del vostro lavoro, e chi vi sta sostenendo?
Vogliamo promuovere la bicicletta come strumento di libertà per risparmiare tempo e creare reti sociali. Abbiamo già ricevuto il supporto di diverse realtà e associazioni, come Cyclopride Italia. Abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding – il finanziamento collettivo che permette di unire le forze e sostenere progetti indipendenti tramite donazioni – e la nostra sta già viaggiando sulla piattaforma online Indiegogo. Il crowfounding permette un contatto diretto con il nostro pubblico prima ancora che inizino le riprese e trasforma chiunque voglia contribuire anche con una cifra davvero piccola in un nostro produttore.
C’è tempo fino al 16 novembre per contribuire online e fare in modo che “Voglio Una Ruota” continui a girare. Il progetto può essere seguito su Facebook, Twitter e Instagram con l’hashtag #vogliounaruota.