Io so ben poco di musica leggera italiana, quindi sapevo ben poco anche di Noemi. Sapevo che esisteva e in che spazio musicale collocarla se qualcuno me la nominava, tutto qua. Questo fino alla settimana scorsa, quando è apparsa sulla copertina di Vanity Fair.
Fasciata da uno sgargiante abito rosso, un sorriso radioso, una posa che cita le star hollywoodiane di altri tempi: una bella donna insomma, come ci si aspetta da un periodico targettizzato “al femminile”. Tutto nella norma, se non per il titolo di copertina: “Il mio corpo libero”, una celebrazione del suo “corpo nuovo” grazie al quale, ci racconta la didascalia, “è diventata davvero se stessa”.
Celebrazione che ci precipita nella, ahimè, classica narrativa del viaggio dalla grassezza – vista come cupezza, costrizione, palude esistenziale, apatia – alla magrezza – che invece rappresenta la libertà, la piena e vera realizzazione di sé e il futuro.
Certo, niente di nuovo sotto il sole per un settimanale pensato per le donne, queste storie sono da sempre il loro pane e una delle loro ragioni d’essere. Ma io sono un’inguaribile ottimista mascherata da pessimista – forse le origini liguri e la nostra propensione al mugugno hanno una qualche influenza in questo – e mi ero voluta illudere che l’avvento della cosiddetta body positivity anche sui media generalisti avrebbe tutelato le grasse da questo genere di narrazioni tossiche.
Ma no. È il capitalismo, bellezza, formula che vince non si cambia.
Noemi partecipa a Sanremo e ha un album in uscita: questa è la storia di successo perfetta per accompagnarsi a un album intitolato “Metamorfosi”, e infatti Noemi se la sta rivendendo ovunque, dopo l’esordio di questo racconto su Vanity Fair.
Anche qui, niente di nuovo, sono meccanismi del mondo dello spettacolo: Tiziano Ferro fece coming out pubblico facendo uscire un libro che parlava della sua esperienza, per esempio (“Trent’anni e una chiacchierata con papà”, Feltrinelli, 2010).
Non si vuole qui suggerire che ci sia qualcosa di male nel creare narrazioni di sé funzionali al guadagno, ma ecco, magari non a danno delle solite note, oppresse sistematicamente e quindi invalidate nelle loro stesse esistenze.
Questa è una storia intrinsecamente grassofobica, ma in ogni caso adattata al 2021. Le parole grassa, grassezza non vengono mai pronunciate, con apparente delicatezza che a una lettura attenta si rivela in realtà un tabù di un mondo grassofobico che non accetta la nostra riappropriazione come persone grasse per quello che siamo.
Sia l’intervistatrice Lavinia Farnese che la stessa Noemi sono attente a specifiche come:
«In lei la Metamorfosi […] si sta compiendo come si compiono i prodigi, o i manifesti. Nel diritto, sacro, di manifestarsi in quel che si vuole, difendendolo. Nella libertà di inseguire l’ideale di bellezza in cui si crede, qualunque sia» (Farnese).
«Non si dimagrisce perché la società ci vuole magri, ma perché tu lo vuoi». (Noemi).
Queste frasi attenuano il giudizio implicito verso chi non dimagrisce, ma sono a mio avviso molto fantasiose.
In ogni periodo storico e in ogni cultura ci sono ideali di bellezza ben precisi e identificabili. Le variazioni individuali, quando presenti, non costituiscono certo la regola (che ci sia una lotta epocale in corso perché questo dato di fatto cambi non significa che sia già così, purtroppo). E la frase sul desiderio di dimagrire perché lo desideriamo noi e non la società risulta ingenua quanto fantascientifica.
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Non penso che tutte le persone grasse che si odiano abbiano iniziato a farlo per ispirazione divina, bensì per le pressioni, i giudizi continui e l’oppressione sistemica della società. E con società qui intendo a ogni livello strutturale: dalla famiglia, alla scuola, al lavoro, e a tutte le relazioni interpersonali che all’interno di queste cornici avvengono.
Ma vengono pronunciate, oltre alle espressioni attenuative del giudizio citate poco sopra, anche una serie di frasi che corroborano e rinforzano il racconto della grassezza come gabbia e condizione molto triste:
«[…] Più perdevo il controllo della mia vita, più mi sfuggiva anche il mio corpo. Ho toccato il fondo».
«Tantissime ragazze e anche ragazzi mi scrivono. […] Caspita, se ce l’ha fatta lei allora posso farcela anch’io, se voglio».
«Se incontrasse la vecchia sé per strada, girando a una curva, che farebbe?
[…] Le direi: “Non ti preoccupare, forse ce la puoi fare”. La ringrazierei, poi, perché attraverso di lei la battaglia del corpo che si vuole avere non riguarda più me, ma tutti, anche quelli che si sentono nati per genere in un contenitore sbagliato. […]»
E sì, avete letto bene: Noemi nella volontà di riempire di significati body positive il suo dimagrimento, ha addirittura fatto un paragone tra la grassezza e la condizione di disforia di genere che vivono alcune persone trans*, anche qui andando – probabilmente non volendo – ad alimentare una narrativa del dolore e della sofferenza che caratterizza ancora oggi il racconto mediatico delle persone trans*, quando hanno la “fortuna” di essere trattate come persone di cui avere pietà ma umanizzate e non trattate solo come creature non umane/ai margini.
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E tutto questo per una remise en forme, come avrebbe forse detto Wallis Simspon (quella di: “non si è mai abbastanza ricche né abbastanza magre”, per intenderci), che per Noemi partiva da una situazione di lieve sovrappeso, non certo di grassezza conclamata. Questo perché, come a volte giova ricordare, la grassezza non è un sentimento: o sei grassa, o non la sei.
L’attivista e podcaster Ash di The Fat Lip ha diviso lo spettro della grassezza non in base al peso, ma allo stigma e alle discriminazioni che ne conseguono. In base a questo spettro Noemi nella sua versione precedente sarebbe forse – mi sento generosa – potuta rientrare nella categoria small fat (letteralmente “piccola grassa”).
Per un attimo mettetevi nei panni dell’altra.
Per un attimo mettetevi nei panni di una “grassa della strada”, già abituata a essere schernita da sconosciut* quando esce, a essere insultata se osa esporsi sui social, a non essere scelta per lavori a contatto col pubblico perché “farebbe sfigurare l’azienda”, a essere invalidata spesso dalla stessa madre e/o dal* compagn*, che vede la copertina di Vanity Fair con quello slogan di liberazione.
Altro che esempio per dimagrire.
La prima cosa che viene in mente a una grassa è: ma se tutto questo racconto di gloria, tutto questo sottolineare il malessere precedente, è per aver perso 10-15 chili, cosa dovrei fare io che di chili in più rispetto al peso forma – concetto agghiacciante e oggi contestato da* nustrizionist* più accort* – ne ho molti, e non sono mai riuscita a perderli? Ma quanto schifo devo fare alla gente?
E via di trigger per ricadute di eventuali disturbi del comportamento alimentare (DCA).
Il punto è che è impossibile riuscire a far passare come body positive una storia come quella che Vanity Fair e Noemi ci raccontano.
Non è vero che “ciascun* insegue il suo ideale di bellezza”, se un dimagrimento relativamente piccolo viene celebrato e incensato sui media con espressioni come libertà, essere se stesse, centratura, reset, etc. Non serve nemmeno dire niente di esplicitamente grassofobico.
Vanity Fair, tra l’altro, è la stessa rivista che a settembre 2020 pubblicò Vanessa Incontrada in copertina con il claim “Nessuno mi può giudicare”.
Per chi non la conoscesse, Incontrada è una ex modella spagnola naturalizzata italiana, donna di spettacolo, bellissima, che ha subito anni di abusi e attacchi on line perché dopo le gravidanze il suo corpo si è un poco arrotondato.
E anche qui, si badi bene: è alta, con forme stupende anche per i canoni classici, non è diventata una grassa che i ragazzini delle medie possano additare per strada come “la Dumba” (la proprietaria di un piccolo bar di fronte a casa mia quando ero bambina).
In questo caso il racconto fu completamente diverso e viene presentato come un riscatto rispetto agli haters. Scomodarono anche l’intellettuale Lidia Ravera per un articolo di commento in cui definiva Incontrada “coraggiosa” (perché si sa, chi osa non odiarsi è sempre coraggiosa) e che si chiudeva così:
«Spero che altre seguano il suo esempio. Tutte quelle che non corrispondono al canone, magari per sorpassati limiti d’età, e non hanno più voglia di nascondersi o modificarsi chirurgicamente, o provare ripugnanza per se stesse. Sarebbe una bella rivoluzione».
Non pretendiamo massima coerenza, ma nemmeno questi racconti così stridenti.
Su Noemi, sia chiara una cosa: lei ha tutto il diritto di autodeterminarsi come meglio desidera, ma essendo un personaggio pubblico avrebbe forse potuto evitare di basare il lancio del nuovo album sulla sua storia di (piccolo) dimagrimento raccontata come rinascita.
Adele, a cui viene paragonata nel corso dell’intervista, è dimagrita di molti più chili e si è mostrata al mondo per la prima volta lo scorso anno con un post su Instagram in cui celebrava il suo 32º compleanno, in cui non faceva parola del suo aspetto. E mai, nei mesi successivi, la superstar Adele ha reso il suo personale dimagrimento una storia di successo o lo ha commentato, ci ha solo scherzato su quando ha fatto l’host del Saturday Night Live.
Come lei, altre, a iniziare dalla potentissima produttrice afroamericana Shonda Rhimes.
Riuscire a non parlare del proprio corpo in questi casi è anche una cifra del potere mediatico raggiunto. Ci hanno pensato i tabloid a fare ipotesi sui metodi dimagranti e al corollario di gridolini esultanti. Le dirette interessante non hanno proferito parola.
Questo significa non attribuire un giudizio di valore al peso, questo sarebbe il minimo sindacale in tempi di tanto sbandierata body positivity. Ancora una volta non è stato così.