È uscito anche in Italia l’atteso numero speciale di National Geographic dedicato al genere. L’abbiamo letto per voi: ci è piaciuto, ma per andare oltre la visibilità crediamo sia importante dare più voce alle persone protagoniste
La rivista internazionale National Geographic esce questo mese anche in Italia con un numero speciale dal titolo “Gender. La rivoluzione“.
Un’uscita preceduta dalle ottuse polemiche lanciate dal quotidiano cattolico Avvenire, che ha contestato la decisione di ritrarre in copertina la bambina transgender Avery Jackson (comparsa solo nell’edizione Usa).
Come attiviste femministe siamo colpite positivamente dal fatto che una testata culturale e scientifica a larga diffusione come il National Geographic dedichi un numero intero alle identità di genere e agli stereotipi di genere.
Infatti, al di là del titolo che strizza l’occhio alle varie polemiche sulla “teoria del gender” degli ultimi anni, il contenuto del numero spazia dall’anti-binarismo alla realtà transgender, dalle questioni queer alla disparità tra uomini e donne.
La scelta di dedicarsi a questi temi è segno di un cambiamento positivo e di una certa attenzione del grande pubblico verso argomenti che fino a pochi anni fa erano riservati al circolo delle persone dedite all’attivismo o che si trovavano a vivere certe problematiche sulla propria pelle.
La contropartita è che, nell’ansia di risultare chiaro a tutte e tutti, il linguaggio e i contenuti, specie sulle questioni più di nicchia, patisce di un’eccessiva semplificazione che a volte rischia di confondere temi connessi, ma diversi.
Ad esempio, il glossario presente nelle prime pagine risulta interessante nella scelta dei termini ma spesso confuso nelle spiegazioni. Come per le voci riguardanti i generi conformi e non conformi, dove si ripete che “non tutte le persone cisgender sono di genere conforme e non tutte le persone transgender sono di genere non conforme” facendo poca chiarezza sulla questione, soprattutto per le persone non addette ai lavori.
Importante, in ogni caso, che siano definite varie identità di genere, come genderfluid, genderqueer e non binario, si faccia cenno alle fasi della transizione come la soppressione della pubertà e la transizione medica, e soprattutto che si sottolinei come identità di genere, espressione di genere e orientamento sessuale siano tre cose ben distinte.
Peccato, però, che nell’immagine in copertina venga indicato sulla destra un “maschio eterosessuale”, espressione errata usata al posto di “maschio cisgender“, che veicola il messaggio sbagliato secondo cui orientamento sessuale e identità di genere siano il medesimo aspetto (e incidentalmente rafforzando uno stereotipo eteronormativo). Questo errore non è presente nella copertina originale in lingua inglese, dove si legge semplicemente “maschio.”
La stessa semplificazione è ripetuta nel servizio “Questioni di gender”, dedicato alle persone di genere non conforme e transgender, in cui si esordisce parlando di “ruoli tradizionali“, come se il ruolo di genere e l’identità di genere fossero sinonimi.
Larga parte del numero è dedicata alla disparità tra uomini e donne nel mondo e alla costruzione sociale dell’identità maschile e femminile. Vengono presentati grafici con le statistiche aggiornate al 2015 (le più recenti disponibili) sul divario tra uomini e donne in vari ambiti, con approfondimenti sulle discriminazioni nell’educazione e nel lavoro, sulle gravidanze adolescenziali, le violenze e le mutilazioni genitali.
Di particolare interesse è il servizio “Uomini si diventa”, che si occupa del passaggio dei ragazzi maschi dall’adolescenza all’età adulta in ogni continente, mettendo in luce il relativismo culturale della definizione di “uomo”.
Si racconta la centralità e l’importanza che i riti di passaggio hanno in alcune culture e come la loro assenza possa rendere più complicata la strutturazione della propria identità.
Peccato che, con toni tutt’altro che neutrali, l’autore minimizzi in modo semplicistico molti studi (genericamente bollati come “femministi”) che tendono a dimostrare la sostanziale uguaglianza tra uomini e donne, per poi inerpicarsi alla ricerca di differenze tra giovani donne e giovani uomini basate sui giochi infantili, facendo grande confusione tra biologia e cultura.
Il servizio “American Girl”, invece, offre una panoramica (a dir la verità un po’ confusa), sui problemi che le adolescenti americane affrontano durante la crescita, soprattutto dovuti alle aspettative sociali e ai modelli dominanti.
In modo un po’ superficiale l’articolo accosta la rigidità di certi canoni estetici ai disturbi del comportamento alimentare (la cui relazione non è semplicisticamente di causa-effetto, come abbiamo scritto anche noi), all’omosessualità e all’eteronormatività imperante.
La parte più interessante dell’articolo è come queste stesse ragazze abbiano sviluppato buone pratiche e laboratori volti all’accettazione di sé e del proprio corpo, supportando allo stesso tempo le altre ragazze della loro fascia di età. Si rimarca soprattutto la qualità terapeutica della sorellanza: aiutando le altre ragazze si migliora notevolmente anche la propria situazione.
In “Bambine, una vita pericolosa”, si analizza la condizione femminile in Sierra Leone, paese africano dove la qualità di vita delle più piccole è ancora molto bassa. Il 90% ha subito mutilazioni genitali, quasi la metà si sposa prima dei 18 anni e le gravidanze adolescenziali sono diffusissime. Le testimonianze delle ragazze raccontano delle difficoltà nell’avere un’istruzione, in quanto rimanere incinte significa spesso non poter concludere gli studi.
Il numero si conclude con un pezzo intitolato “L’evoluzione delle identità”, in cui l’autrice sostiene che ciò che accomuna tutte le donne è che tutte sono prigioniere della propria cultura. Viene poi espressa la convinzione che alcuni comportamenti sembrano essere innati, ma che la biologia non è un destino inevitabile e che possiamo immaginare un mondo in cui il genere di una persona non sarà più motivo di discriminazione.
In conclusione cosa ne pensiamo di questa rivoluzione “gender” in salsa National Geographic?
Bene, ma si potrebbe far meglio, molto meglio.
Apprezziamo lo sforzo divulgativo (indice soprattutto di un interesse da parte dei lettori) nel trattare certe tematiche, ma fare divulgazione implica la necessità di far passare concetti in modo corretto e non contraddittorio, oltre che in modo accessibile.
Gli articoli, inoltre, appaiono poco coerenti gli uni con gli altri, creando ulteriore confusione in chi è a digiuno di questi argomenti.
Come spesso accade quando non si lascia abbastanza spazio alle voci delle persone protagoniste, che vivono questi fatti in prima persona e che se ne occupano come attiviste e attivisti, il risultato può essere un guazzabuglio confuso, che lascia nozioni potenzialmente interessanti, ma anche imprecise e sparse.
Certo, c’è il merito di aver dato grande visibilità ad argomenti di nicchia, ma, per la prossima volta, ricordiamoci che la visibilità da sola non basta.
[ Articolo a cura di Beatrice da Vela e Phi ]