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Mostra del Cinema di Venezia, poche registe e male gaze: abbiamo un problema

La locandina della 75a edizione della Mostra del cinema di Venezia 2018

La 75ª Mostra del cinema di Venezia è stata anticipata da una polemica internazionale sulla scarsa presenza di registe.

Polemica che i giornali italiani hanno affrontato ben poco e in maniera superficiale, ma che si è conclusa con la firma di un protocollo sulla parità di genere analogo a quello sottoscritto da altri festival del cinema.

Ma quali sono le ragioni del dibattito e come sono state affrontate in Italia e all’estero?

La polemica sulla discriminazione di genere

Scorrendo i titoli è subito emerso che, per il secondo anno consecutivo, è presente in concorso un solo film diretto da una donna su un totale di 21 (The Nightingale della regista australiana Jennifer Kent). Considerando anche le sezioni collaterali al concorso, su 70 film solo 15 sono diretti da donne.

Interpellato in merito, il direttore della Mostra Alberto Barbera aveva inizialmente risposto che il problema non era da cercare nella selezione del Festival, semmai nell’industria cinematografica nel suo complesso che, allo stato attuale, fa sì che ci siano troppi pochi film diretti da donne. Barbera stima, infatti, che solo circa il 21% delle 1650 richieste di ammissione alla Mostra siano film di registe. Sempre secondo Barbera, Venezia non poteva fare nulla per cambiare la situazione e addirittura aveva aggiunto: «Lo dirò in modo un po’ brusco. Il giorno in cui dovrò scegliere un film solo perché è diretto da una donna cambierò lavoro».

Questa frase lasciava intendere che Barbera non avesse compreso o non volesse comprendere davvero il punto della questione, denotando una incapacità di dialogo e di messa in discussione di sé e della squadra di selezionatori che dirige.

Le pressioni internazionali, però, hanno spinto infine Barbera a cedere e a firmare l’accordo  50/50 by 2020, che punta a raggiungere un’equa rappresentazione di uomini e donne nel mondo dello spettacolo entro i prossimi due anni. L’intesa è stata anche sostenuta dal gruppo di professioniste del cinema Dissenso Comune e dall’associazione Women in Film, Television & Media Italia, che inizialmente avevano taciuto sulle polemiche.

Un problema di sguardo tutto al maschile

Nonostante il lieto fine, mi interessa soffermarmi sulle parole di Barbera, condivise da molti e molte altri professionisti dello spettacolo. Se è vero che non ci sarebbero abbastanza film diretti da donne meritevoli di entrare in Concorso perché in altri principali festival di cinema internazionali come Berlino, Toronto, Cannes, Sundance e Locarno è presente un più ampio numero di film diretti da donne?

Credo che la radice del problema stia tutta nello sguardo maschile sul cinema, le arti visive e più in generale in una società che nel suo complesso è ancora in mano a uomini, quasi sempre bianchi ed eterosessuali. Parlo di quel famoso “male gaze” di cui la Feminist Film Theory si è a lungo occupata, a partire dal celebre saggio di Laura Mulvey Visual Pleasure and Narrative Cinema pubblicato nel 1975 che ne coniò l’espressione.

Lo sguardo maschile raffigura il mondo da una prospettiva prettamente maschile, eterosessuale e bianca e presenta le donne soprattutto come oggetti sessuali per il piacere dello sguardo dello spettatore maschio e come soggetti passivi o pensati in funzione degli uomini. Lo sguardo maschile affonda le proprie radici nel patriarcato, che pone la mascolinità in una posizione superiore. Poiché storicamente le istituzioni e il potere sono gestiti dagli uomini, nel corso dei secoli, si è creata la falsa convinzione che tutto ciò sia normale e socialmente accettabile.

Una delle inevitabili conseguenze dello sguardo maschile è il pregiudizio, in alcuni casi anche inconscio, verso tutto ciò che viene considerato e percepito come diverso rispetto al canone maschile eterosessista/eteronormativo e bianco.

A parlare del pregiudizio dei selezionatori dei festival di Venezia sono state organizzazioni di donne nel settore degli audiovisivi (European Women’s Audiovisual Network, Women in Film & TV International, WIFT Nordic, WIFT Sweden e Swiss Women’s Audiovisual Network) che hanno scritto una lettera aperta al presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, pubblicata sul quotidiano francese Le Figaro, in cui chiedono conto della scarsa rappresentanza di film diretti da donne nel Concorso e che anche la Mostra del Cinema di Venezia sottoscriva un impegno pubblico per garantire la parità di genere, che i selezionatori dei festival e critici partecipino ad una formazione specifica sui pregiudizi sul genere e su tutte le diversità.

Nella lettera viene ricordato che i selezionatori e i critici sono storicamente e in grande maggioranza uomini. I critici sono all’80% maschi e, all’inizio del 2018, i principali selezionatori dei festival erano tutti uomini. Eppure le donne rappresentano più della metà della popolazione mondiale e poiché i gusti possono essere soggettivi ma i numeri no, se un festival non riesce a rappresentare accuratamente la popolazione mondiale, se costantemente mostra il mondo attraverso uno sguardo prevalentemente bianco e maschile, questo festival è oggettivamente non rappresentativo e malamente programmato.

Al momento l’unica risposta pervenuta da Venezia è quella del direttore Barbera che, dalle pagine dell’Hollywood Report si è difeso dalle accuse di maschilismo, ribadendo ancora una volta la sua teoria secondo cui Venezia non può fare niente per cambiare la situazione e che inserire un film nella competizione solo perché diretto da una donna sarebbe offensivo per la regista.

Un altro cinema è possibile

A dimostrare che si può organizzare un festival di cinema inclusivo e al tempo stesso di qualità è Tricia Tuttle, direttrice artistica del BFI London Film Festival. Presentando il programma della 62ᵃ edizione che si svolgerà a Londra dal 10 al 21 ottobre, ha infatti rivelato che il 38% dei film in programma sono diretti da donne, il 30% per quanto riguarda le anteprime e che in tre delle quattro sezioni del festival la divisione di genere tra uomini e donne ha raggiunto il 50%, senza dover ricorrere alle quote.

Tuttle sostiene che trovare più film diretti da donne rispetto alle edizioni passate non sia stato particolarmente difficile o impegnativo: «Stiamo andando nella direzione che tutti auspichiamo di raggiungere e stiamo vedendo molte nuove entusiasmanti donne registe emergere dal programma. Tutti noi vogliamo andare nella direzione della parità ma non vogliamo stabilire delle quote per noi stesse. (…) Parliamo sempre della provenienza dei film, di chi li ha realizzati e di come ciò può rientrare nella struttura complessiva del programma in termini di diversità mondiale e di diversità di genere ma non abbiamo stabilito che il 50% dovevano essere registe donne».

Ma pur essendo un festival importante, il BFI London Film Festival non ha la stessa importanza di Cannes, Venezia e Toronto, che insieme rastrellano le première mondiali dei film che sono potenziali contendenti nella stagione dei premi che vanno dai Golden Globe agli Oscar. Quest’anno Cannes ha raggiunto un risultato solo leggermente migliore di Venezia in termini di uguaglianza di genere tra i registi, con tre film diretti da donne sui 20 presenti in concorso, ma ha sottoscritto anch’esso un impegno pubblico e formale a garantire in futuro la parità di genere, lo stesso che si è poi affrettato a firmare anche Venezia.

A maggio Thierry Frémaux, direttore generale del Festival di Cannes, Édouard Waintrop, direttore artistico della Quinzaine des réalisateurs e Charles Tesson, direttore artistico della Semaine de la Critique, hanno firmato un impegno in cui promettono di realizzare statistiche sul genere dei registi dei membri delle troupe dei film presentati a Cannes, oltre a migliorare la trasparenza relativa ai processi di selezione dei film, rendendo pubblici i membri dei loro comitati di selezione e programmazione e di lavorare nella direzione della parità riguardo i loro consigli di amministrazione.

L’iniziativa è stata promossa da 5050×2020, un collettivo francese nato nel febbraio del 2018, che raccoglie al suo interno donne che, a vario titolo, lavorano nell’industria del cinema. Il loro obiettivo è sfidare le istituzioni pubbliche, gli enti privati, le organizzazioni di categoria e i sindacati, i festival, le giurie e le scuole di cinema affinché incoraggino l’uguaglianza, l’inclusione, le giovani generazioni, la parità salariale e un trattamento più equo delle donne nell’industria cinematografica entro il 2020.

Tra le azioni messe in campo per raggiungere questo obiettivo c’è la creazione di un osservatorio che monitori l’eguaglianza nell’industria del cinema. Il potere dei numeri può servire a far crescere la consapevolezza, aumentare la visibilità delle loro istanze e alimentare i laboratori che condurranno alla produzione di idee, soluzioni e opportunità.

Anche negli Usa è nato 5050by2020, movimento intersezionale che ha lo scopo di raggiungere l’uguaglianza ad Hollywood entro il 2020, affinché la mecca del cinema statunitense diventi più inclusiva nei confronti di donne, persone di colore, LGBTQIA+ e con disabilità. Tra le cofondatrici c’è Jill Soloway, autrice, sceneggiatrice e regista di serie tv come Transparent, I love Dick e Six Feet Under, da sempre impegnata nella diffusione di una narrazione e di uno sguardo intersezionale (intersectional gaze) da contrapporre a quello maschile dominante.

Il silenzio assordante della stampa italiana

Nei media mainstream italiani il dibattito è stato poco trattato, a differenza dei giornali esteri, e in alcuni casi, tra l’altro, in modo davvero pessimo e triviale (su Dagospia è uscito un titolo tipo “Più figa per Le Figaro”, giuro!). Ulteriore dimostrazione che un problema esiste eccome se si sceglie di non parlarne a priori, rimuovendolo. Diversamente, se ne starebbe discutendo tanto quanto, se non di più, della polemica relativa ai film di Netflix presenti alla Mostra.

Ancora una volta l’Italia si rivela un paese arretrato e maschilista. È innegabile che abbiamo un serio problema riguardo le questioni di genere. Come ricorda The Hollywood Reporter l’Italia detiene uno dei peggiori record in fatto di parità di genere in tutti i settori della società. In un paese nel quale si hanno solo sei mesi di tempo per denunciare un abuso sessuale e tre per una molestia, non è strano che il movimento #MeToo non abbia avuto lo stesso effetto rispetto che in altri Paesi e che ora sia duramente sotto attacco e denigrato per via del caso “Argento-Bennett”.

Tutti questi elementi hanno fatto titolare all’Hollywood Reporter che la selezione di Venezia rispecchia la cultura italiana intrisa di maschilismo.

Di fronte a questo articolo, così come di fronte alla polemica in generale, diversi giornalisti, critici e selezionatori di festival uomini (ma anche qualche donna) si sono indignati, prendendo le difese di Barbera e della sua squadra di selezionatori, spesso negando, sminuendo e ridicolizzando la questione della presenza femminile alla Mostra.

Per alcuni di loro si tratta solo di politicamente corretto (la solita accusa di “buonismo” che vede il rispetto delle differenze come un obbligo ipocrita e moralista a cui dover sottostare controvoglia), falsi problemi, mancanza oggettiva di film di qualità diretti da donne. Ancora una volta chi è parte del sistema patriarcale, consapevolmente o anche solo inconsapevolmente, cerca di difendere a tutti i costi lo status quo.

Ma penso e spero che i movimenti femministi presenti in tutto il mondo saranno più forti di questo argine arcaico e discriminante. Spetta a noi attiviste e attivist* innescare il cambiamento che tanto auspichiamo e che sta già producendo risultati concreti positivi, anche in Italia, visto il risultato ottenuto infine a Venezia. Anche solo continuando a parlarne, aprendo e alimentando il dibattito.