“Se nos fue” Diego, se n’è andato Diego Armando Maradona.
Dei suoi prodigi, misteri impenetrabili ai più, dell’intimità gioiosa e combattiva coi popoli dannati della terra, si continueranno a scrivere per anni parole d’amore appassionate, nonostante il fastidio dei potenti.
In milioni lo piangono, questo era previsto, ma per alcune è stato ed è un lutto complicato.
Parliamo delle donne che lo riconoscono come idolo popolare, e per cui non sono state riservate, in questi giorni, parole molto tenere.
Aprire spazi sani di confronto può essere utile a sottrarre certi sentimenti, così forti e complicati, alla voracità delle polemiche di questi tempi.
Mentre la voce di Hebe de Bonafini, dell’Asociación Madres de Plaza de Mayo (che dagli anni ’70 chiede giustizia per i desaparecidos della dittatura militare argentina), cercava di scaldare tanti cuori salutando Diego come un figlio (“Non appartiene più soltanto a noi, appartiene al mondo e il mondo ricorderà Diego per essere fedele agli umili, come quando scelse di andare a giocare a Napoli”), molte donne di quella Napoli, soprattutto se femministe, erano chiamate a spiegare o condannare la propria tristezza, perché inaccettabile.
Gli attacchi contenevano accuse più o meno feroci di difendere un uomo violento, un machista, oltre che tossico, un evasore e un camorrista.
Partiamo dal presupposto che ogni critica sia importante, come sono valide tutte le emozioni, compresa la rabbia. E dalla consapevolezza che il femminismo sia fatto di tanti approcci, anche molto contrastanti tra loro. Un punto comune, però, andrebbe tenuto molto fermo, altrimenti non si può andare avanti: se questa rabbia si esprime nell’oppressione di altre donne, c’è qualche problema.
Quello di cui stiamo parlando qui non è di impedire a qualcuna di non sentire nulla per la morte di uno che – liberamente – si consideri un poco di buono, ma della condizione di doversi difendere da attacchi feroci in un momento di lutto collettivo.
Una femminista può piangere Maradona?
I buchi neri della vita di Diego non sono nulla che chi lo piange non conosca già – e con cui abbia dovuto fare i conti molto prima del suo lutto -, sembra necessario dire anche questo. E oltretutto, non si tratta di un segreto, niente che non fosse chiaro, o per cui mancassero occasioni di scambio anche solo passeggiando per Napoli, cosa che negli ultimi anni, dato il boom di visite, deve essere capitato a molte persone.
A meno che queste visite non siano state solo turismo – l’occasione di consumare quel godimento che la gentrificazione musealizza lasciando credere che sia lì solo a uso altrui, e non appartenga più a chi la città la abita – non si può non aver notato che Diego fosse parte fondamentale della memoria popolare di Napoli anche da vivo, e non un prodotto di folklore. E volente o nolente, quella memoria appartiene a chiunque.
Il giorno del suo lutto è stato allora un giorno naturale per esprimersi, ed esprimere la contraddizione già presente da sempre per molte.
Le donne di Non una di Meno Napoli hanno riportato l’articolo “Perché amiamo Diego se siamo femministe?” di Camila Parod, Lisbeth Montana e Nadia Fink, dove si esprime un concetto fondamentale: «Se parliamo di Diego, parliamo della gente». La premessa del testo (tradotto da Alice Rizzo e Francesca de Rosa, e ripreso da Dinamo Press e DaQui), è questa: “Abbiamo deciso di tradurre questo testo in questo giorno per molt* di noi difficile da affrontare, non perché cerchiamo delle risposte, ma per porci nuove domande che come sempre galleggiano in un mare di contraddizioni. Le contraddizioni non ci spaventano – anzi – ci spingono a raccontarci, in quanto quotidianamente ci abitano, a raccontare la nostra storia, come sempre, da una prospettiva Terrona».
La cantante cilena Ana Tijoux, l’autrice di “Antipatriarca”, colonna sonora di tanti cortei femministi, si è domandata se chi la attaccava non avesse mai avuto una relazione tossica, con amici, padri e fidanzati, e afferma: «Ho 43 anni e ho strumenti per analizzare e proteggermi. Dico questo perché si parla contro la violenza e oso dire che gran parte – non tutto – quello che ho potuto leggere è di nuovo violenza. Avete pensato a quante persone non hanno gli strumenti per vedere queste violenze? (…) Ho scritto Antipatriarca e la sento ogni volta che la canto. Questo nessuno può metterlo in discussione, soltanto io quando mi guardo nella mia intimità».
Mónica Santino, argentina, direttrice tecnica di calcio femminile ha dichiarato: «Diego era nostro, profondamente villero, profondamente de barrio, e questo ha una connessione con il femminismo popolare che è indistruttibile».
Ro Ferrer, illustratrice e comunicatrice femminista, in uno dei suoi disegni, gentilmente concessi anche per questo articolo, mostra una bambina amante del calcio che chiede “lasciatemi piangere”. Non è stata esente da polemiche, e ha risposto così: «Ciò che mi preoccupava di più è il fatto che aver postato questo dolore verso Maradona, ha automaticamente permesso di negare l’intero percorso che ho fatto fino a qui, anche dello stesso giorno. Perché, ad esempio, quella stessa mattina ho fatto molti disegni riguardanti il 25 novembre. E quello stesso giorno, le mie stesse compagne mi dicevano cosa non potevo sentire e cosa non potevo dire. (…) Maradona significa la mia infanzia e la mia adolescenza. (…) In quel periodo non avevamo molti riferimenti donne, lesbiche, travestis, trans (nello sport), dunque gli uomini che avevo come riferimenti erano parte costitutiva della mia personalità. (…) Quando ho postato il disegno ho sentito il momento prima dell’attacco, quando già sai che sta arrivando. Ma non voglio stare zitta. Il “non sto più zitta” vale per tutto, non solo all’esterno (del movimento). E non è qualcosa che ho provato soltanto io. Quindi non ti viene in mente che c’è qualcosa che non stai vedendo?».
Georgina Orellano Ammar, del Sindicato de trabajadorxs sexuales de Argentina si chiede: «Quanto di popolare e intersezionale ci manca nei femminismi, hermanas, per capire un po’ cosa genera in noi un Maradona e per essere in grado di avvicinarsi un po’ al dolore popolare?».
La giornalista femminista Analía Fernández Fuks ha aggiunto: «Avvicinarsi alla figura di Maradona dai femminismi include pensare a un femminismo intersezionale. Non stiamo parlando solo di genere, penso sia molto importante poter guardare alla razza, etnia, classe ed età. In questo caso si tratta di pensare a Maradona dalla posizione dei femminismi popolari».
E tante altre, esposte e non, tante donne del popolo, anonime, magari non politicizzate, lontane da organizzazioni e riflettori, hanno ricevuto un’attenzione inedita. Solo un esempio, molte donne migranti argentine a Barcellona. Peccato che è un’attenzione difficilmente riservata, come loro stesse esprimono in tanti commenti affidati ai social, alle richieste di migliori condizioni di lavoro, magari a servizio delle stesse donne che le attaccano, o perché il loro status migrante non consente loro di vivere come tutte le altre.
Il messaggio, insomma, è comune: lasciateci sentire quello che stiamo sentendo.
Il classismo e il razzismo che non si vogliono vedere
Questi attacchi sembrano rivelare tante cose, ma in particolare un punto, un nodo, con una chiarezza che, da una certa posizione, si può dire senza dubbio cristallina: l’assoluta estraneità di molte persone bianche dei nord globali, e che in tanti casi si definiscono intersezionali, ai dolori dei sud del mondo. E, di conseguenza, al valore cruciale della gioia, della rivalsa, e del riscatto da quei dolori.
Questa estraneità, questo distacco totale dalla realtà materiale di quei margini (i sud che, in questa epoca di immense emigrazioni, possono esistere anche nelle più ricche capitali del nord), esula dal caso specifico, e racconta proprio un modo di fare attivismo che sistematicamente nega le passioni e i sentimenti, quei dolori e quelle gioie, nati sotto lo scacco di oppressioni che non riesce a vedere.
Poiché è evidente che ai margini esistono sfumature che al centro, pure con le migliori intenzioni, sfuggono senza speranza. E questo si fa sentire in momenti in cui le sfumature conquistano temporaneamente il centro del discorso.
L’essere irrilevanti davanti a un femminismo che si alimenta di riduzioni e semplificazioni, che vede il patriarcato come un monolite senza nessuna implicazione nella realtà, è una condizione che ci raccontano spesso i femminismi neri e latini, solo per fare un esempio.
Pure se a volte citate astrattamente e fino a che non passano di moda, queste elaborazioni appaiono come quello che sono: faticose e molto scomode da praticare nella vita comune, ma se solo entrassero più spesso tra i saperi condivisi, non staremmo qui a spendere tante parole per qualcosa che risulta a certi occhi ovvio, ad altri assolutamente inspiegabile.
Un femminismo che nega i sud, e soprattutto le donne dei sud, fa estrema fatica a comprendere la solidarietà comunitaria, inclusa quella senza più confini precisi che ora accoglie Diego anche dopo la sua morte. E suona proprio male che nell’attaccare le donne a lutto, e ricordiamocelo, in molte sono argentine, si possa pensare di insegnare il femminismo a paesi che portano in seno le più acute contraddizioni, e da cui sono nati i semi di mobilitazioni globali, esattamente perché (e non nonostante) impregnati di un machismo vivo, luoghi che il femminismo lo hanno reso così imponente che non è stato più possibile ignorarlo.
Gli stessi luoghi in cui è molto chiaro che le persone che più ami, gli amici e i compagni che ti stanno accanto, potrebbero diventare i più grandi sconsiderati. E ti aspetterai da loro che si sottopongano in qualche modo alla comunità stessa, ma non di certo ai sistemi di oppressione capitalista, razzista, coloniale, imperialista, abilista che gravano anche su di te e che ti sono molto presenti.
Sono i presupposti di un femminismo che riesca a essere anche popolare, a volte indecoroso, impresentabile e imperfetto, di un’intersezionalità fatta anche di profonde delusioni, ma mai di dottrine, come ce lo aveva dannatamente chiaro chi, in un momento vulnerabile, pur non vivendolo in prima persona, ha saputo dimostrare solidarietà senza nessuna esitazione.
Le donne de El Telar. Comunidad de Pensamiento Feminista Latinoamericano, collettivo di ricercatrici e militanti per l’educazione pubblica e i femminismi, in una nota scritta in seguito agli attacchi ricevuti intitolata “Di passioni politicamente scorrette per certi femminismi” e pubblicata su La Tinta, si fanno domande come: «Ma i femminismi non possono essere rispettati nella loro pluralità di modi di ricercare il cambiamento sociale? Si potrebbe smettere di considerare tutte le pratiche di violenza come patologiche e considerarle come emergenti da una struttura sociale più grande di un individuo solo?».
Torna la domanda cruciale: «Tu, puoi davvero sentirti ignarx del dolore che il mondo intero sta attraversando oggi?».
E continuano: «Di una cosa siamo sicure: un Popolo non dimentica chi lo fa felice. E la felicità di un Popolo, per noi, non si mette in discussione. Nemmeno la tristezza. Scegliamo di non separare le emozioni e le passioni dalle nostre costruzioni intellettuali. Perché sappiamo che questa pratica è coloniale, patriarcale, capitalista e adultocentrica. Scegliamo di costruire a partire dai nostri corpi-territori, che sono senza dubbio interlacciati con la memoria collettiva popolare e con il sentimento di amore e allegria condivisa».
E se queste parole, dal basso, risuonano così forti e parlano una lingua intellegibile a corpi/territori tanto distanti, non è affatto un caso. Ritorna la domanda che pone Ro Ferrer: «Sarà che c’è qualcosa che non state vedendo?».
Se la risposta è no, non importa.
Avrete le vostre ragioni, ottime o terribili che siano, quelle ragioni parleranno delle vostre posizioni politiche, delle vostre origini o esperienze.
La rabbia, anche quella sarà ancora valida, senza bisogno di un permesso.
Non sarà una femminista a dirvi cosa dovete provare.