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Moda e femminismo: consigli anticapitalisti per iniziare a cucire e riciclare

Cosa ha che fare come ci vestiamo col femminismo? In un mondo in cui vanno di moda magliette con slogan "femministi" che cosa vuol dire vestirsi in linea con i nostri valori? I consigli di Kelly, appassionata di usato, e Chiara, che si cuce i vestiti da sola

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Foto di Becca McHaffie su Unsplash

Cosa ha che fare come ci vestiamo col femminismo? In un mondo in cui si sfornano magliette con slogan “femministi”, da Dior a H&M, che cosa vuol dire vestirsi in linea con i nostri valori?

Nell’ultimo anno a causa della pandemia, visto il calo dei consumi, molti colossi della moda hanno disdetto ordini per vestiti già pronti causando un danno enorme a chi confeziona i nostri vestiti, soprattutto donne e ragazze nei paesi del Sud globale.

Queste lavoratrici hanno perso il lavoro senza ricevere alcun indennizzo. La Clean Clothes Campaign ha calcolato che le lavoratrici e i lavoratori del settore siano stati privati di compensi fino ai 5.8 miliardi di dollari nei primi tre mesi della pandemia. E queste sono solo stime.

Esistono modi di sottrarsi alle dinamiche fast fashion e cos’hanno a che fare con femminismo e privilegio?

Kelly Ardens e Chiara Capraro, due attiviste di Pasionaria, in questa intervista doppia condividono le loro pratiche e danno alcuni consigli per chi voglia iniziare a vestirsi diversamente.

 

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Riciclare abiti usati: l’esperienza di Kelly

Kelly, qual è il tuo approccio alla moda e ai vestiti?

«Amo la moda da sempre, in particolare quella nata per strada o nelle sotto-culture del web. Tanta era la mia passione che nella vita ho deciso di fare un corso di formazione da stilista e ho pensato di seguire una formazione da fashion designer. Tuttavia i tipi di insegnamento con cui sono venuta a contatto vertevano sempre verso la moda più patinata o modaiola nella quale io non mi ritrovavo.

Ho cambiato strada nella mia formazione ma in me non è mai morta la passione per la moda, soprattutto la più eccentrica. Amo vestirmi in modo stravagante e giocare con abbigliamento e accessori. Mi sono accorta col tempo che le cose più eclettiche e più appropriate per me non si trovavano nei negozi fisici o nelle catene di fast fashion, quindi ho iniziato a comprare e vendere vestiti online.

Ho iniziato nel 2013 per gioco e quando ho deciso di farlo le persone intorno a me non credevano che sarebbe durato molto. Ho cominciato dai mercatini su Facebook e poi mi sono iscritta a varie piattaforme che mi permettevano di vendere la mia roba come Depop.

Il 95% del mio armadio è di seconda mano».

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Una foto dal Depop di Kelly Ardens

Quali sono le tue motivazioni e cos’hanno a che fare col femminismo?

«Quando ho iniziato in realtà non l’ho fatto per coscienza politica. Poi entrando sempre di più nel mondo del femminismo e delle sue pratiche mi sono accorta di quanto quello che facessi fosse potente.

Comprare e vendere usato è un validissimo strumento politico.

Le catene di fast fashion come sappiamo inquinano tantissimo, i vestiti sono cuciti da persone che spesso non hanno nessuna tutela e hanno bisogno di lavorare, in particolare donne e bambini. Questo purtroppo è dovuto alla nostra mentalità capitalistica privilegiata per cui sentiamo il “bisogno” di consumare ancora prima di aver sfruttato quello che possediamo già.

Comprare usato mi permette non solo di avere capi unici in senso più estetico e superficiale: mi permette di non alimentare questa macchina capitalistica. Prendo dei capi e degli accessori di seconda mano che possono essere usati perché non piacciono più o non sono sfruttati.

Inoltre, mi permette di dare soldi a una persona singola con la quale ho delle relazioni, anche brevi, ma umane. Chi vende usato magari ha bisogno di arrotondare i suoi risparmi e io preferisco dare soldi a delle persone, piuttosto che a grandi catene.

Infine, mi permette di inquinare meno e di preservare l’ambiente, perché io cerco anche di riciclare per quanto posso gli imballaggi. E tutto questo lo faccio divertendomi e indossando i capi dei miei sogni, me ne frego che siano usati.

La gente pensa che usato significhi usurato e sporco, ma non è la realtà».

 

Quanto tempo ti costa?

«Il termine “costare” non è appropriato per me perché io la trovo una vera e propria passione a cui mi dedico. E pensandoci questo è un privilegio: avere tempo da dedicare a questa mia passione, perché direi una bugia dicendo che non “costa” tempo.

Per il negozio di Depop passo intere mattine a fotografare i capi: trovare la luce giusta, il modo adatto di proporli, trovare uno sfondo adatto, scrivere le descrizioni, trovare gli hashtag appropriati. Sui mercatini Facebook o su Shpock l’approccio, ad esempio, è molto più veloce perché l’estetica è relativamente poco importante. Questo se si sceglie di vendere».

 

Che consigli daresti a chi vuole iniziare un percorso simile?

«Direi in primo luogo, e di questo ne sono sicura, che potete rivendere qualsiasi cosa non sfruttiate. Questo è meraviglioso!

“Ma chi comprerebbe questo top glitterato con la stampa pitone verde acido?”, vi chiederete. State tranquill*, qualche persona è interessata! Quindi non demordete. Iniziare è sempre difficile, ma quando si ha il proprio giro di clienti e amicizie che si creano con la compravendita tutto fila a meraviglia.

Iniziate magari dai gruppi e dal Market di Facebook che sono di più facile e rapido utilizzo.

Vorrei dire che comunque è un percorso che si prende con un certo privilegio, non solo di tempo come ho detto, ma anche di taglia: infatti non tutt* trovano capi per il proprio corpo, soprattutto per le persone grasse non è facile.

Quindi non voglio dire che sia una strada da seguire per forza “altrimenti non si è vere femministe”. È solo un modo alternativo che si sceglie per motivi politici o per soddisfazione personale, se si può intraprendere».

 

La cosa che ti ha dato più gioia trovare usata?

«Un top paillettato rosso acceso con una scollatura da favola che lascia la pancia scoperta!

Ps: se davvero avete un top glitterato con la stampa pitone verde acido ve lo compro io!»

 

Imparare a cucire: l’esperienza di Chiara

Chiara qual è il tuo approccio alla moda e ai vestiti?

«I miei gusti sono cambiati molto con il passare degli anni ma da quando ho iniziato a comprarmi vestiti da sola ho sempre amato comprare usato e vintage e realizzare cose da sola, tipo fasce per capelli e spille. Nell’ultimo anno specialmente ho iniziato a cucire praticamente tutto quello che mi serve, dai pigiami alle giacche.

Mi piacciono le cose uniche che di solito hanno prezzi al di sopra del mio budget. Cerco di non comprare troppo e spesso trovo che ho pezzi unici ma poche cose basic, così spesso mi sembra di aver poco da mettere. Sto cercando di rimediare. In generale possiedo meno delle mie amiche, forse anche perché ho traslocato tante volte negli ultimi dieci anni quindi cerco veramente di non accumulare troppo. Nell’ultimo anno ho vissuto in tuta ovviamente».

 

 

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Come hai imparato a cucire?

«Ho fatto un breve corso nel 2013 e ho subito deciso di cucirmi tutto e non comprare più nulla. Questo desiderio si è presto scontrato con la realtà delle mie capacità e mi sono scoraggiata e ho messo tutto da parte.

A fine 2019 mi è venuta voglia di ricominciare e ho chiesto a un’amica molto brava di fare un vestito con me per riprendere la mano. Poi è arrivato il lockdown è il resto è storia. Ho avuto molto più tempo per me stessa e ho iniziato a dedicarmi di più al cucito. Ho scoperto nuovi cartamodelli e sperimentato varie tecniche, in generale ho migliorato molto le mie capacità. Cucirmi una tuta e farla pure bene (quella rossa nella foto) è stata davvero una soddisfazione enorme! Nello stesso periodo ha iniziato a cucire anche una mia amica e quindi ci scambiavamo suggerimenti e incoraggiamenti  a distanza».

 

Come pensi che il cucito possa legarsi alla lotta femminista?

«La motivazione principale per cui cucio è che da femminista intersezionale non riuscivo più a conciliare i miei valori con il comprare cose fatte da donne razzializzate in ambienti orribili e per paghe da fame. Stavo davvero male fisicamente dopo aver comprato qualcosa. Ero anche entrata in un tunnel di shopping online che mi faceva sentire molto sconnessa dai vestiti che compravo.

Non penso assolutamente che gli unici contributi che possiamo dare alla lotta femminista siano quelli da consumatrici ma penso che siano importanti, specialmente per qualcosa di così personale come ciò che indossiamo.

Cucire qualcosa anche di molto semplice ti fa capire il lavoro che ci sta dietro e dopo aver iniziato ho cominciato a riflettere più a fondo su quanto valore davo al lavoro di donne in una posizione molto meno privilegiata della mia. La possibilità che abbiamo di vestirci a poco e comprando molto esiste solo perché altre donne ne pagano il prezzo in termini di salute, diritti e dignità.

Inoltre cucire è generalmente considerata un’abilità minore proprio perché lo facevano tradizionalmente le donne, in realtà richiede delle abilità enormi ed è un lavoro creativo. Mi piace l’idea di fare parte di una tradizione e continuarla.

Spesso mi sembra che si prenda il fast fashion come una cosa su cui non abbiamo alcun potere ma non è così.

Cucire è un privilegio perché richiede tempo, spazio e denaro, cucirmi anche solo una maglietta costa di più che comprarne una da H&M. Ma anche se non hai questa possibilità di cucire puoi fare pressione sulle aziende, seguire campagne come Clean Clothes e Fashion Revolution, comprare meno e trattare bene la roba cosi dura di più. Una cosa che ho scoperto di recente per esempio è che laviamo troppo i vestiti e che per maglioni, jeans e giacche spesso basta metterli all’aria».

 

Che consigli dai a chi vuole iniziare a fare ciò che fai tu?

«Ci sono video di ogni sorta su YouTube basta cercare quello che ti serve, per esempio cucire una cerniera. Fare un corso anche breve per imparare dal vivo sarebbe l’ideale. Penso sia utile anche chiedere in famiglia, spesso si scopre che ci sono persone che ci sanno fare.

Penso che iniziare con una macchina da cucire magari prestata e fare qualcosa di semplice come una tote bag possa dare grande soddisfazione e farti capire se il cucito potrebbe piacerti. Instagram è una miniera d’oro di ispirazione ma può anche essere un problema per l’autostima, specialmente se sei all’inizio. Per uno sguardo realistico e incoraggiante consiglio di seguire le ragazze di Raglan».

 

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Quanto ti senti soddisfatta di te dopo che hai cucito un vestito?

«Spesso è un misto, ci sono sempre imperfezioni e difetti ma il fatto di creare qualcosa di bello e utile che poi metti, dà davvero moltissima soddisfazione.

Ho un problema di perfezionismo per cui cucire mi ha aiutato molto ad accettare le imperfezioni e a focalizzarmi sul fare progressi piuttosto che essere senza difetti.

Poi nel mondo del cucito si dice che se non vedi il difetto da un metro non lo vede nessuno. Sono sempre molto felice quando azzecco la combinazione modello e tipo di stoffa, una cosa non scontata!».

 

Quando la gente ti chiede cosa indossi racconti della tua storia?

«Di sicuro se ricevo un complimento su qualcosa che indosso mi piace rispondere: «l’ho fatto io» e vedere che faccia fa la gente. Se si parla in generale di moda e vestiti condivido con le altre persone le motivazioni che mi hanno spinta a cucire. Poi con le amiche che cuciono parliamo in maniera più approfondita di come essere attente alla sostenibilità dei materiali, come ridurre gli scarti e magari usare stoffe che hai in casa, come tende o lenzuoli».

 

Compri mai fast fashion o hai smesso del tutto?

«Cerco di non comprare fast fashion e preferire marche più etiche ma a volte sono costretta dai prezzi. Compro ancora biancheria e calzini, a volte compro maglioni se non li trovo usati perché a fare a maglia o a uncinetto sono negata (mia madre ha cercato di insegnarmi almeno dieci volte ma non ce la posso fare!).

A volte compro cose tecniche per andare in montagna ma una tantum, ho avuto gli stessi scarponi per 7 anni! E ovviamente scarpe anche se cerco di spendere un po’ di più per la qualità e comprare meno, o comprare fondi di magazzino tipo su Ebay o usato».

 

Articolo di Chiara Capraro e Kelly Ardens