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Miti da sfatare: il femminismo relega le donne al ruolo di vittime?

Continuano le nostre riflessioni dedicate agli stereotipi più comuni rivendicati dalle “Donne contro il femminismo”, un gruppo italiano che ricalca le orme del noto blog Women against feminism. Questa volta rispondiamo a chi sostiene che il femminismo releghi le donne al ruolo di vittima 

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Non ho bisogno del femminismo perché fare la vittima è un disturbo di personalità.
Non ho bisogno del femminismo perché fare la vittima è un disturbo di personalità.

Uno degli argomenti antifemministi più diffusi, non solo tra le Women against Feminism, è che il femminismo relegherebbe la donna al ruolo di vittima, si baserebbe cioè su una forma di “vittimismo di genere”.

Estremizzato così com’è, quest’argomento è assurdo, ma credo sia interessante e importante riflettere sulle origini di tale stortura, perché mette in luce alcuni comportamenti e pratiche di un certo tipo di femminismo a mio avviso sbagliate.

Partiamo dal termine usato: “vittima“.

Secondo la Treccani vittima è “chi soccombe all’altrui inganno e prepotenza, subendo una sopraffazione, un danno, o venendo comunque perseguitato e oppresso”.

Il femminismo denuncia il sistema di oppressione ai danni delle donne, oppressione che può essere più o meno avvertita (e della questione della percezione ne parleremo diffusamente) a seconda di vari fattori (sociali, culturali, personali etc.). Con un ragionamento grossolano si può dire che le donne sono vittime di un sistema di oppressione.

Il problema in chi rifiuta questo assunto è che la nozione di vittima nell’immaginario collettivo (anche per quel fenomeno noto come colpevolizzazione) è collegata al concetto di debolezza, di incapacità a difendersi, in generale di ruolo minoritario, ha cioè ‘un’accezione negativa.

Il femminismo, però, si ribella proprio a quest’accezione: dicendo che le donne sono oppresse (e anche qui, non tutte allo stesso modo e non tutte nella stessa misura, proprio per questo motivo sempre di più i movimenti femministi tengono conto anche delle altre lotte per la giustizia sociale) non si ferma a una pietistica considerazione, ma propone strategie e pratiche per sradicare l’oppressione, attraverso l’autodeterminazione, l’autocoscienza e il potenziamento delle proprie capacità. Si tratta dunque di aiutare le donne, sia come individui che come collettività, a combattere le forme di oppressione alle quali sono sottoposte.

Vittima viene anche spesso inteso non come un accidente dell’esistenza in relazione a un’azione specifica, ma come qualcosa che qualifica la persona nel complesso, diventa cioè un’esperienza totalizzante (con le connotazioni negative di cui sopra).

In realtà il femminismo non teorizza questo, non solo perché i gradi di oppressione variano da persona a persona e a seconda delle diverse situazioni, ma anche perché subire ingiustizia sociale in una o più occasioni non vuol dire comunque non avere spazi per la felicità (se vengo discriminata sul lavoro, questo non vuol dire che non possa essere felice in un altro campo, per esempio nelle relazioni personali, anche se certamente in più situazioni sarò oppressa meno la mia esistenza sarà felice).

Inoltre negli ultimi anni la teoria femminista ha posto moltissima attenzione proprio sulla relatività delle relazioni all’interno di uno o più sistemi di oppressione/potere: infatti chi viene discriminato per una certa caratteristica (per esempio essere donna) può opprimere qualcun altro per un’altra caratteristica (ad esempio per essere omosessuale). I sistemi di oppressione sono diversi e in relazione tra loro e i loro effetti si combinano e si incrociano nelle relazioni interpersonali, con effetti molto diversi su ogni individuo.

Per tutti questi motivi, dire che il femminismo vuole “vittimizzare” le donne è un’enorme semplificazione.

Come accennavo in apertura, però, è vero che alcuni femminismi utilizzano il concetto di vittima in modo assoluto. Prendiamo il caso delle prostitute, che per alcune femministe sono sempre e soltanto vittime: non è contemplato che una donna possa fare commercio del proprio corpo per libera scelta (noi ne abbiamo parlato qui). Molto spesso, almeno in Italia, l’utilizzo di questo tipo di linguaggio è legato a tematiche che riguardano il sesso e la sessualità: l’utilizzo del termine vittima è legato al retroterra culturale cattolico-borghese dominante (è dunque anche una questione di classe).

Ancora peggio è quando si pretende di trasporre questo stesso modello su culture diverse da quella occidentale dominante. È il caso delle polemiche sull’hijab, il tipo di velo islamico che lascia scoperto il volto, che viene considerato da talune femministe sempre come una forma di oppressione e mai come una libera scelta o un fattore culturale, imponendo così standard occidentali su altre culture (è evidente come questo tipo di ragionamento sia oppressivo e colonialista).

In conclusione se è scorretto sostenere che il femminismo sia un tentativo di vittimizzare tutte le donne, allo stesso tempo è vero che certi femminismi e certe pratiche, sulle quali bisognerebbe riflettere (e che secondo la mia opinione andrebbero corrette), prestano il fianco a questo tipo di critiche.