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Miti da sfatare: il femminismo non chiede uguaglianza ma privilegi per le donne?

Continuano le nostre riflessioni dedicate agli stereotipi più comuni rivendicati dalle “Donne contro il femminismo”, un gruppo italiano che ricalca le orme del noto blog Women against feminism. Questa volta ci rivolgiamo a chi sostiene che le femministe non vogliano davvero l’uguaglianza perché si focalizzano solo sui problemi delle donne

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“Io sono anti-femminista perché credo che il femminismo sia un gruppo ipocrita che incita all’odio e non riconosce i problemi degli uomini. Io voglio vera uguaglianza, non stronzate privilegiate”

Alcune donne motivano il proprio rifiuto del femminismo dicendo che loro sono a favore dell’uguaglianza, quindi non possono dirsi femministe. La prima tentazione sarebbe di rispondere che probabilmente, se la pensano così, del femminismo hanno un’idea molto confusa: il femminismo non proclama la superiorità della donna, ma vuole appunto l’uguaglianza (ne abbiamo parlato anche qui).

Lo ammetto, anche a me l’idea delle discriminazioni positive (le quote rosa, ad esempio) non piace per niente. Innanzitutto dal punto di vista ideologico, poiché di fatto ammette che la categoria che ne beneficia ha “qualcosa in meno” rispetto a coloro per cui non sono previste tali protezioni. Ma anche dal punto di vista pratico, perché molto spesso (è così nella nostra politica) diventa un’operazione ipocrita di marketing, che va al discapito del merito (un ragionamento del tipo “ti candido perché sei donna, indipendentemente dalle tue capacità, soltanto perché così passo da progressista”: il cosiddetto “pink washing“).

Ma l’uguaglianza non basta. L’uguaglianza non diventa equità senza la giustizia sociale, come illustra efficacemente questa nota immagine.

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La differenza tra uguaglianza ed equità

Trattare tutti allo stesso modo è importante e sacrosanto, ma se qualcuno parte da una condizione di svantaggio (per genere, per classe, per colore della pelle, per nazionalità) difficilmente, pure quando gli sia assicurato lo stesso trattamento di una persona privilegiata, potrà ottenere una qualità della vita simile. Le discriminazioni positive e gli aiuti, anche economici, non sono dunque un fine, ma un mezzo, sulla cui efficacia si può poi ragionare, criticare, eventualmente correggere.

Il femminismo chiede uguaglianza, equità e giustizia sociale (è per questo che, nella mia opinione, non può essere separato dalla lotta di classe).

Questo mi porta a un secondo punto, strettamente collegato al rifiuto del femminismo come “etichetta”. Molte persone negli Stati Uniti preferiscono definirsi, proprio in virtù di quanto detto sopra, equalitarian, cioè “egualitarie”. In Italia va invece di moda dire di essere antisessista piuttosto che femminista (oppure in alternativa umanista/comunista/antispecista e via dicendo).

Definizioni, croce del nostro secolo. Parlavo di lotta di classe, poco fa e nel mio profilo non nascondo di essere marxista. Mi impedisce di essere femminista? No. E sono anche tantissime altre cose: lesbica, attivista LGBTQI, antifascista, antirazzista… Mettiamo che tutte le volte che ci presentiamo, dovessimo elencare tutte le categorie in cui ci riconosciamo: arrivati in fondo probabilmente non riusciremo più a ricordare il nome del nostro interlocutore.

Dirsi femminista (che implica essere anche antisessista) non è una definizione esclusiva, non impedisce di essere altre cose. Di certo non significa occuparsi solo e soltanto di questione di genere o dei diritti delle donne.

Dirlo ad alta voce ha però una fortissima valenza simbolica e dunque politica: io sono femminista perché mi interesso (anche) delle tematiche di genere. Ed è una scelta, visto il clima corrente e le polemiche che spesso argomenti femministi provocano, che a tutt’oggi è ancora coraggiosa.