Nel 2009 frequentavo un corso di Storia dell’Arte al Goldsmiths College di Londra che, senza che io me ne accorgessi, avrebbe cambiato la mia visione di quella che è la maggiore rappresentazione della vita stessa, l’arte.
L’arte in grado di appassionarti talmente tanto da essere viscerale, quella che ti spiega la vita e ti guida nella sua complessità, che ringrazi per la ricerca del vero e che non ti lascia mai più. Almeno questo vale per me.
Questa premessa serve per introdurre le mie personali critiche al lavoro di una artista contemporanea che in questi ultimi tempi è stata molto discussa: Milo Moiré.
La performance artist svizzera si esprime espellendo uova dalla vagina (Plop Egg) per dipingere in stile Jackson Pollock o girando completamente nuda per strada con i nomi degli indumenti al posto dei vestiti (The Script System). Ha anche manifestato nuda a Colonia dopo gli stupri avvenuti lo scorso Capodanno con un cartello con su scritto: “Rispettateci! Non siamo bersagli facili, neanche quando siamo nude”.
Ma il motivo per cui ha fatto tanto scalpore nelle scorse settimane è la performance The Mirror Box, in cui Moiré indossa una scatola con un’apertura e invita i passanti a stimolarle sessualmente il seno o la vagina. Per questo è stata arrestata recentemente sia a Parigi che a Londra.
Se avessi osservato le performance di Milo Moiré prima del mio bellissimo periodo londinese, avrei creduto che si trattasse di roba forte e ne avrei colto i messaggi più espliciti che forse l’artista cerca di comunicare, quali la strumentalizzazione del corpo femminile, il voler accettare che l’esperienza fisica conti quanto i processi mentali e probabilmente tanto altro che però si affolla in maniera vorticosa e caotica, senza capo né coda, in chi osserva.
Tutto ciò, infatti, non posso coglierlo o almeno, non mi è concesso, dopo aver conosciuto ed analizzato opere quali Eye Body – Transformative Actions (1963) o Interior Scroll (1975) di Carole Schneeman, Thomas Lips (1975) o Rythm 0 (1974) di Marina Abramovic o Rape Scene di Ana Mendieta (1973), per fare qualche esempio.
In Rythm 0, Marina Abramovic mette il suo corpo a disposizione degli spettatori della performance per 6 ore e pone su di un tavolo 72 oggetti, alcuni che le faranno provare piacere, altri in grado di provocarle dolore, tra cui lamette e una pistola carica.
In queste 6 ore la volontà dell’artista non sussiste e viene messa in evidenza la natura che contraddistingue le persone. Vi è chi le mette in mano la pistola e la rivolge verso di lei, appoggiandole il dito sul grilletto; chi le taglia vestiti e pelle lasciandola sanguinare e chi, invece, forma un cordone umano per difenderla. Sadismo e protezione. Violenza e rispetto.
Ana Mendieta (di cui avevamo parlato anche qui), invece, simula di aver subìto un violentissimo stupro, si accascia su di un tavolo, apparentemente svenuta, e invita a casa sua gli amici, che sorprendendola in questo stato vivranno un vero e proprio shock. Per questa performance si ispira a un reale caso di stupro di una studentessa e lo mette in scena così come descritto dalla stampa del tempo.
Carolee Schneeman in Interior Scroll si pone di fronte agli spettatori ed estrae dalla sua vagina un lungo papiro del quale legge le parole, rifiutando la disconnessione tra le vite, le anime e i corpi delle donne attraverso la storia e le culture. Il testo scritto e letto dall’artista era il seguente:
I thought of the vagina in many ways– physically, conceptually: as a sculptural form, an architectural referent, the sources of sacred knowledge, ecstasy, birth passage, transformation. I saw the vagina as a translucent chamber of which the serpent was an outward model: enlivened by it’s passage from the visible to the invisible, a spiraled coil ringed with the shape of desire and generative mysteries, attributes of both female and male sexual power. This source of interior knowledge would be symbolized as the primary index unifying spirit and flesh in Goddess worship.
Queste artiste usavano il corpo stesso, nudo, come linguaggio e il mantra è stato uno per tutte: “Il femminismo è politico“. E dunque il corpo diviene strumento politico di trasmissione di idee. La performance con richiami sessuali o erotici ha valenza sociale tramite il veicolo dell’avvilimento del corpo femminile.
La reazione potente di fronte a queste artiste non è data dal fatto che si vada oltre “la pubblica decenza”, bensì dall’andare dritto al punto: ciò che tortura è, dunque, il messaggio stesso, che talvolta mostra crudeltà ideologiche, sociali, altre ha a che fare con la passività della donna nella società patriarcale.
Quindi il corpo nudo delle artiste creava ai tempi distanza, non attrazione, perché era intellettualmente e artisticamente concepito come mezzo. L’importante è dove si arriva con tale mezzo.
Il corpo della Moirè, invece, rimane lì dove si trova, nei nostri tempi bui di oggettificazione. E’ bellissimo e provocatorio, ma rimane in se stesso e temo non sopravviverà agli anni come quelli di Abramovic o di Yoko Ono di Cut Piece (1964), ad esempio, in cui l’artista richiede agli spettatori di tagliarle i vestiti, mostrandosi in tutta la sua fragilità.
Occorre porsi una domanda e ce la suggerisce il collettivo delle Guerrilla Girls, artiste femministe anonime di New York, molto attive a partire dal 1985: le donne devono essere nude per entrare in una galleria d’arte?
Ce lo chiedevano negli anni ’80: il discorso femminista avrebbe dovuto evolvere dopo i mirabili esempi citati sopra e non tornare più indietro di prima.