Sarà capitato anche a voi, oltre che di avere una musica in testa, di ritrovarvi con “l’avanguardia sguarnita”. In parole povere, l’arrivo improvviso del ciclo mentre si è fuori casa. Capita a tutte almeno una volta, anche a quelle puntualissime con le mestruazioni.
C’è chi il ciclo mestruale lo odia e chi ne fa uno strumento di rivendicazione dell’essere donna, come in “Bloob in the Boardroom” dove la cantautrice Ani DiFranco canta: “It’s the only power that I possess (…) I can make life, I can make breath” [è l’unico potere che possiedo (…) posso generare la vita, posso far respirare”].
Io faccio parte della categoria “mi tocca, ne farei volentieri a meno, ma dato che debbo conviverci, tanto vale farlo nel miglior modo possibile”. Poi d’estate, la saggezza di queste ultime parole viene meno, lasciando spazio al fastidio atavico di dover reggere ‘sta convivenza forzata con 40° all’ombra.
Il ciclo e l’estate. Una carrellata di luoghi comuni e falsi miti da fare invidia ai più gettonati siti web di bufale e leggende fantasy. Me le ricordo ancora quelle scene in spiaggia dove qualche nonna strillava terrorizzata alla nipote di non fare il bagno “nelle tue condizioni” perché “se no PUOI MORIRE”. Ehhh, mamma mia, e che è? Un film dell’orrore?
E vi è mai capito di trovarvi a spiegare a qualcuno che sì è possibile farsi il bagno anche nei giorni dello “tsunami rosso“? Non so, nel dubbio, tanto per renderla più semplice: nessuno pensa alle nuotatrici? Chiedono di rimandare una gara perché hanno il ciclo o passano al caro vecchio amico assorbente interno e via, tutte in acqua? Chissà, eh.
Sul fatto che ci sia anche chi crede che il ciclo possa attirare gli squali, sorvoliamo.
“Ma tu vai al mare durante quei giorni lì?”. Io no, perché già non sopporto il caldo di mio figuriamoci con il ciclo addosso, ma tante donne ci vanno, se la vivono bene, serenamente e sono ancora vive. Tranquillizzate le nonne di cui sopra.
Su tutti, però, il mio falso mito preferito è legato a una tradizione molto sentita al Sud. Su di me, terrona cresciuta a pane e conserve di pomodori fatti rigorosamente in casa durante il periodo estivo, ha ancora un certo fascino: se hai le mestruazioni, non puoi fare la salsa! Che poi la guasti. E non si discute.
Oh, però qui mi tocca dirlo, nel dubbio ci voglio credere. “I want to believe”, come gli X-Files. Non fosse altro per la fatica che si fa a farla ‘sta salsa e perché, qualche volta, per questo motivo me la sono scampata. La pigrizia vince sempre su tutto. Come il banco.
Quando ero adolescente (parlo degli anni Novanta non dell’Ottocento!) il ciclo era un tabù per le ragazze. Riflettendo su questo mi sono chiesta se sia ancora così. Probabilmente no, o almeno voglio sperarlo, ma siccome siamo anche il frutto di mentalità e retaggi che ci portiamo appresso, ho deciso di spendere due parole sull’argomento.
Le scene a scuola del “ce l’hai un assorbente?“, pronunciato in tonalità “Marilita Loy“, erano la consuetudine. Che io non capivo il perché di quel bisbigliare. Manco stessimo spacciando droga.
All’epoca la coppetta mestruale non sapevamo nemmeno cosa fosse. Eppure, a quanto leggo, pare non sia proprio un’invenzione recente. Fatto sta che in un’età in cui il sesso e tutto ciò che ruota intorno a esso era ancora visto come una cosa aliena, da non dire, da non pronunciare ad alta voce, soprattutto se eri donna, nessuna di noi era a conoscenza dell’esistenza di quel buffo arnese. La vicenda si limitava, quindi, ad assorbenti esterni o interni.
Simpatia o meno, falsi miti o facili ironie, il punto è un altro: perché parlare di mestruazioni è un tabù? O meglio, lo è ancora? Quante volte mi sono ritrovata nel mezzo di conversazioni di questo tipo.
– Ma hai le tue cose?
– Si chiamano mestruazioni, lo puoi dire.
– Uffa, è arrivato il Signor Rossi.
– E chi è?
– Quello che arriva ogni mese a noi donne…
– Ciclo. Si chiama ciclo!
– Shhhh!
Ma shhhh perché? Mica lo sto descrivendo, lo sto solo nominando e non credo rientri nelle cose da non nominare invano come Dio, Voldermort o la sfiga, che quella poi te la attiri. Perché non si può nominare il ciclo? Non l’ho mai capito.
Averlo è la cosa più naturale del mondo, non averlo semmai può essere un problema, ma anche lì se ne può parlare, anzi se ne DEVE parlare!
La conoscenza, la prevenzione, lo scambio di informazioni, sono cose fondamentali per la salute. E invece no. Silenzio. Omertà. Segretezza. Ma forse erano problemi di quel tempo, oggi magari se ne parla serenamente. O forse no?
Per me è sempre stata una cosa talmente naturale che, quando mi ritrovavo nella spiacevole situazione dell’arrivo improvviso con conseguente mancanza di assorbente al seguito, ponevo la fatidica domanda “ce l’hai un assorbente?” ad alta voce.
Mi rispondevano volti silenziosi, che trasmettevano un misto di pudicizia violata e indignazione. Io scrollavo le spalle e passavo oltre, talmente noncurante della cosa che quando per sbaglio ho domandato al mio compagno di classe se avesse un assorbente, è finito tutto in una risata.
– Piè, scusa, hai un assorb… no, tu magari non ce l’hai.
– (lui, ridendo) Fino a tanto non arrivo, ma adesso chiedo alle altre.
Ecco, Pietro aveva involontariamente capito il punto. Non c’è proprio nulla di male a parlare di ciclo. Possibilmente, però, evitando di ricalcare stereotipi di (vario) genere. Ogni riferimento a isterismi etichettatici addosso o pubblicità di assorbenti interni a prova di uomo non è puramente casuale.