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La “vita distrutta” dei violentatori: come i media rinforzano la cultura dello stupro

Se non vi è ancora chiaro cosa sia la cultura dello stupro, vi consigliamo di leggere l’articolo che è stato stroncato e denunciato pubblicamente sulla Rai dalla scrittrice Michela Murgia durante la trasmissione Quante Storie, il cui video – molto condiviso sui social – è intitolato: “Quando la stampa minimizza lo stupro”.

Di cosa si tratta? Facciamo un passo indietro.

Succede che sei appassionata di pallavolo e che tra una cronaca sportiva e un’altra, un giorno trovi davanti agli occhi una notizia shock: alcuni pallavolisti cubani vengono arrestati per stupro in Finlandia.

L’episodio risale al luglio del 2016: siamo a Tampere e la nazionale cubana sta disputando la World League, un prestigioso torneo internazionale. Le accuse, poi confermate da una sentenza, sono gravissime. Cinque di loro vengono condannati a 5 anni di carcere. Cinque anni di carcere. Per uno stupro. Che a te pare sempre poco per un reato del genere, ma questa è la sentenza.

Succede che mesi dopo sei ancora lì a cercare notizie sulla pallavolo e di nuovo un articolo shock appare davanti ai tuoi occhi. Questa volta non si tratta di un altro episodio di violenza, ma di un reportage fatto nelle carceri finlandesi dove i cinque pallavolisti di cui sopra stanno scontando la pena.

Il giornalista Stefano Arcobelli si reca in Finlandia per raccontare come se la passano i cinque stupratori. Non usa mai questo termine, eppure è quello che sono. Ci sono prove che hanno portato alla sentenza: DNA, telecamere, verifiche e, ovviamente, la dichiarazione della vittima. Prove che lo stesso giornalista elenca e si premura di non contestare però…

Già dal sommario la prima cosa che viene messa in evidenza è lo stato d’animo degli stupratori. “La nostra vita è distrutta”. La loro. La vittima invece sarà ben lieta di avere tra le sue esperienze uno stupro da parte di cinque persone.

Poi si riportano brevemente i fatti di cronaca, mettendo in evidenza che il giornale non ha motivo di dubitare della sentenza e che quello che leggeremo è solo un semplice reportage di come vivono i cinque giocatori. Questa è la premessa, che sa tanto di mettere le mani avanti perché poi arriva la raffica di termini che va a sminuire la gravità dei fatti, a evidenziare il “dramma” dei carnefici e a dar loro la possibilità di instillare il dubbio nel lettore.

Lo stupro viene sintetizzato in “notte bollente”, il crimine diventa una “brutta storia” e, dulcis in fundo, cosa si va a evidenziare? La carriera rovinata.

Certo, i cinque in questione erano astri nascenti del volley cubano, ma non è possibile dare più risalto a questo che alla gravità di ciò che hanno commesso. Tra l’altro la carriera se la sono rovinata con le proprie mani, il vittimismo è totalmente fuori luogo.

Ma l’apoteosi del dubbio instillato in modo subdolo, strisciante, arriva dopo. Quel dubbio che porta il lettore a farsi la domanda: e se fossero innocenti? Improvvisamente le prove che hanno portato alla sentenza di condanna non contano più.

Come spesso accade quando si raccontano episodi di violenza sulle donne il pensiero viene accompagnato al chiedersi se la violenza possa non esserci stata, se sia imputabile a un comportamento sbagliato della donna, se i carnefici in realtà non siano vittime di un raggiro, di un inganno o, perché no, di un complotto. Magari pure a sfondo razziale. Che in Finlandia sono prevenuti perché loro sono di Cuba, che li tengono isolati, che le carceri finlandesi hanno condizioni di vita durissime. Manco fossimo a Guantanamo.

Così, in un magistrale gioco di “scarica barile”, si passa la palla agli stupratori e si permette loro di schiacciare e segnare punti su un campo libero, permettendo di definire il reato “una leggerezza assurda” imputabile al fatto che i cubani sono focosi, istintivi, esuberanti, e chiudendo il set con un potente ace vincente che va a ribaltare tutto il risultato: è stata LEI a rovinarli, lei che rideva di loro.

In tutto questo non una parola di empatia verso la vittima – quella vera! -, non una parola di condanna o contestazione nei confronti dei cinque ragazzi da parte del giornalista. Neanche mezza. Anzi, gli preme sapere se per loro l’immagine della rivoluzione cubana fosse stata macchiata dalla loro vicenda. Perché è quella evidentemente l’onta più grave. E ancora fiumi di rimpianti sulla carriera stroncata sul trampolino di lancio.

Come dicevamo all’inizio, questo articolo è un esempio da manuale di cultura dello stupro, quella scuola di pensiero – diffusa anche nelle aule dei tribunali – che porta a minimizzare la violenza sessuale e ribaltarne le dinamiche, colpevolizzando le (vere) vittime e giustificando i colpevoli.

Che questa mentalità sia perpetrata e avallata da un giornale così importante è un fatto gravissimo. Non a caso la formazione dei professionisti della comunicazione è uno dei punti chiave del Piano femminista antiviolenza su cui sta lavorando Non una di meno e si dimostra necessaria per sradicare la violenza di genere.