Oggi pubblichiamo un regalo per tutte le nostre lettrici e i nostri lettori: si tratta di un racconto inedito scritto a quattro mani da Laura Costantini e Loredana Falcone. La protagonista è Carolina Crivelli, che vuole fare la giornalista in un’epoca, l’Ottocento, in cui le donne possono ambire tutt’al più a scrivere di moda e di amore: per inseguire il suo sogno, non esiterà a sfidare le convenzioni e ad abbandonare Milano per il Messico nel pieno della guerra civile. Carolina ci parla e nella sua voce sentiamo le parole di tutte quelle donne che osarono sfidare le convenzioni per i propri ideali e per i propri sogni: ne ricordiamo alcune attraverso le immagini

Vorrei poter negare che essere donna, in questo secolo che si ammanta di velleitari sogni di modernità, sia una condizione piuttosto che un genere. Una condizione di inferiorità, per altro, che ci colloca all’ultimo posto dopo il più infimo rappresentante del genere maschile. L’unico meritevole di essere considerato.
Mi duole il pensiero che il ruolo ascrittoci sia confinato nell’ambito della casa, del matrimonio, della famiglia. E che non si possa mai uscire da quest’ambito neppure con la mente.
Mi duole accettare l’idea di un’immobilità di pensiero che nega a noi donne il diritto di essere ciò che vogliamo, che ci costringe nelle pastoie di un’esistenza alla quale è negato ogni futuro di indipendenza. Di libertà. Perché è ad essa che anelano i nostri cuori, libertà di poter coltivare i nostri sentimenti, le nostre ambizioni. Di poter dire no, di poter amare, pensare, agire secondo la nostra volontà senza riconoscere ad alcuno il diritto di vivere al nostro posto.
Non riesco a capire come possano gli uomini non rendersi conto che questa condizione di inferiorità in cui ci hanno relegate è lungi dall’essere loro di un qualche beneficio. Come sarebbe più facile anche la loro vita se ci considerassero al loro pari, se approfittassero delle nostre qualità per rendere meno dura un’esistenza che già di per sé ci fa rimpiangere di essere nati.
La natura ci ha fatti diversi, e questo è innegabile. Ma alla forza dell’uomo la donna può rispondere con la tenacia, alla prestanza fisica con l’intelligenza sottile. Alla millantata capacità di giudizio con il discernimento, avulso di quell’orgoglio virile che tanti mali ha generato nei secoli.
Pensate alla guerra.
Quale madre accetterebbe di mettere a repentaglio la vita dei propri figli senza prima cercare di trovare, quand’anche sia difficile, una soluzione alternativa all’uso scellerato delle armi?
Ma alle donne non difetta il coraggio.

La storia ha appena dimostrato che il tuono del cannone, il sangue, la polvere da sparo non hanno tenuto lontane le donne dalle barricate. A Milano erano donne quelle che caricavano i moschetti, donne quelle che soccorrevano i feriti e spesso imbracciavano il fucile dei compagni caduti. Compagni, sì, non negatemelo, perché tali ci rende l’affrontare insieme l’insidia della morte. Così come si dovrebbe essere compagni nell’affrontare la vita che il destino ci apparecchia.
Né uomo, né donna, ma eguali.
Vorrei gridarlo fino a perdere la voce, fino a raggiungere le vostre menti chiuse in una consuetudine obsoleta, in una tradizione che cozza con le prove che il futuro ci appronta. Il mondo va avanti, così in fretta che non riusciamo a tenerne il passo. Il progresso rischierà di sopraffarci se non saremo preparati ad affrontarlo fianco a fianco, ognuno con le proprie capacità, coi propri mezzi.
Eppure, signori uomini, continuate a negarci lo studio, vi rifiutate di ammetterci nelle vostre università interdicendoci da professioni in cui potremmo riuscire come voi. Fors’anche meglio. Ci volete strette nei corsetti, impacciate da strascichi e crinoline. Per il piacere che traete dalla nostra bellezza, dite. In verità per impedirci anche solo di pensare che potremmo cimentarci con i vostri martelli, con le vostre falci, con i vostri moschetti. Un passo dietro di voi, sempre. Come docili cagnolini addestrati a ubbidire e compiacere. Un passo dietro di voi, soffocate dalla vostra ombra, sopraffatte dal vostro ego smisurato che vi fa credere di essere quanto di meglio Nostro Signore abbia creato. Ma non è così, datevene pace. La perfezione risiede in noi, nella nostra capacità di generare la vita. È questo il nostro potere più grande. Noi possiamo garantirvi la discendenza, il futuro. E allora, in nome di Dio, perché volete negarci di esistere? È forse paura la vostra? Paura di scoprire che quell’essere fragile e indifeso che vi gloriate di mantenere in vita su questa terra oltre a rammendarvi le braghe è capace di tenervi testa? Paura di ammettere che questa supremazia della quale andate fieri altro non è che una chimera, generata dall’errore di crederci inferiori? L’inferiorità è cosa che riguarda la mente, non il corpo. Un uomo mutilato, privo della vista o dell’udito, offeso nel corpo dalla malattia, non resta forse un uomo finché il bene dell’intelletto non l’abbandona? È l’intelligenza che ci distingue dalle bestie. Non è un assurdo che il mondo animale sia l’unico in grado di riconoscere e accettare il fondamentale apporto della componente femminile nella vita della specie? Eppure studi recenti hanno dimostrato che l’uomo è frutto di un’evoluzione. E non il contrario.

In nome di un privilegio che non vi riconosco, io, donna, dovrei rinunciare alle mie aspirazioni, legarmi a un uomo che si prenda cura di me, che provveda alle mie necessità, che decida in vece mia come se fossi priva di un cervello, e relegarmi per sempre a una vita di infelicità.
Come se io non appartenessi a me sola.
Come se il cibo e un tetto e un letto caldo fossero gli unici bisogni che brami soddisfare. Cosa dovrei farne della mia sete di verità, della mia aspirazione a conoscere il mondo, del mio sogno di potere un giorno raccontare la vita che mi scorre accanto, che mi investe. Perché dovrei restarmene fuori dalle porte sbarrate dei vostri giornali o sentirmi paga di una rubrica in cui menzionare ciò che voi, signori uomini, credete siano gli unici veri interessi di noi donne: la moda, le chiacchiere mondane, i pettegolezzi di un mondo frivolo e insulso che mi appartiene quanto a voi il tombolo o il bel canto?
Perché dovrei soffocare il mio istinto che mi spinge verso altri mondi, verso altri popoli, verso la ricerca di una storia diversa da quella legata alla nostra terra, alle nostre genti?
Il sacrificio che chiedete è troppo grande.
Meglio affrontare i pericoli celati in una vita avventurosa che la noia di un’esistenza senza scosse, con le terga affondate in morbidi cuscini, le orecchie ottuse da melanconiche melodie strimpellate al piano, gli occhi offuscati dal riverbero della gloria chiamata a baciare le vostre fronti di padri, mariti, soldati, eroi.
Come vorrei che il mio non fosse il soliloquio di una visionaria. Cosa darei per sentire altri voci di donne, di mogli e madri unirsi alla mia.
Ma alla mia voce fa eco il silenzio.

Se mi fosse permesso di dare corpo alle aspirazioni per cui sono nata, queste mie parole profumerebbero dell’inchiostro delle stampe. Invece resteranno sterili svolazzi annacquati dal pianto delle mie lacrime. Lacrime di donnicciola come vi è caro sottolineare ad ogni stilla. Se solo vi chiedeste cosa si cela dietro quelle lacrime… Quanta rabbia, quanta insoddisfazione, quanto dolore. Ma interrogare il cuore non è mestiere che vi si addice, signori. Anche questa è un’incombenza che lasciate a noi. Voi interrogate la mente, peccato lo facciate in una lingua che non v’appartiene.
Vivo con la speme che tutto questo, un giorno, possa cambiare. Che all’esempio di una, faccia seguito quello di dieci, cento, mille donne. Ed è per onorare questa speranza che dirò no a tutto quello che la società si aspetta da me. Sono pronta a lasciare la mia terra, pronta al confronto con un mondo che non m’appartiene. La rivoluzione messicana mi chiama e io mi metto al suo servizio. Non so se riuscirò nel mio intento ma farò del mio meglio. E se dall’altra parte dell’oceano dovessi incontrare il mio destino, chiedo a voi, unica a potermi capire, contessa Clara Maffei, di riportare a quanti mi sono cari e a quanti rideranno di me, questo che considero il mio testamento spirituale. Con la vostra benedizione, addio per sempre.
Carolina Crivelli, giornalista.
Potete leggere le avventure di Carolina nel nuovo romanzo di Laura e Loredana, Ricardo y Carolina.