In occasione del 40esimo anniversario dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Ostia 2 novembre 1975) pubblichiamo un breve articolo di critica di genere sulla figura della donna nell’opera dell’intellettuale

La figura della madre
Quando si pensa alle donne nelle opere di Pasolini, soprattutto quelle cinematografiche, non possono che venire in mente (tanto da essere quasi divenute un cliché interpretativo), le madri.
Una galleria di personaggi indimenticabili: da Anna Magnani in Mamma Roma, donna che vive e lotta per un futuro borghese (migliore, nella sua ottica) per il figlio, ai ruoli interpretati da Silvana Mangano (la madre di buona famiglia in Teorema, Giocasta in Edipo Re, la Madonna nell’affresco giottesco del Decameron), fino alla madre “diversa e terribile”, Medea, per giungere al realismo crudo e straziante di Susanna Pasolini nella sequenza della passione in Il Vangelo Secondo Matteo.
Una delle poche poesie a essere entrata nelle antologie scolastiche, ridotta a iconcina della festa della mamma, è Supplica a mia madre, forse una delle poesie più terribilmente crudeli (e non una delle migliori) che un figlio possa dedicare alla propria genitrice, dove emerge piuttosto la figura di un amore materno indissolubile, tirannico e freudianamente traumatico.
Le donne e il consumismo
Accanto (e insieme) allo studio della figura materna, nelle opere di Pasolini c’è anche (soprattutto dal ’68 in poi) una riflessione più articolata, nelle opere più strettamente politiche, sul ruolo della donna nella società italiana, specialmente in riferimento alla riflessione più generale sulla “mutazione antropologica”: in questa trasformazione socio-culturale, le donne, anzi le ragazze, perché sia in Scritti Corsari che in Lettere Luterane l’attenzione di Pasolini è tutta rivolta ai giovani, rivestono un ruolo particolare, poiché sono loro a essere protagoniste di una nuova liberazione (i diritti acquisiti attraverso la rivoluzione sessuale).
Nella dinamica consumistica, le ragazze, i loro corpi, diventano strumento di potere (passivo, poiché in ultima istanza esse sono dominate dal potere economico) e la loro disponibilità erotica favorisce i consumi neoliberisti (il mercato dei bisogni della “coppia”) e la conservazione dell’ordine sociale funzionale a quel tipo di sviluppo (questo è esposto in un breve periodo ne I giovani infelici).
Quell’articolo contro l’aborto
Esattamente questo tipo di argomentazione costituisce la base razionale argomentativa (perché è in dubbio che in quell’articolo ci sia anche una parte lirica ed emotiva) del celeberrimo articolo sull’aborto, nel quale Pasolini si dichiara a favore della sua regolamentazione e tuttavia si dice convinto che si tratti di un omicidio (accostandolo all’eutanasia), criticando come superficiale il modo in cui era stato impostato il problema da parte delle forze progressiste. In realtà, come rilevò Carla Lonzi, Pasolini era all’oscuro dei dibattiti interni al movimento femminista italiano.
Ciò che Pasolini non rilevava, forse in funzione della propria argomentazione, forse perché al di fuori dello schema marxista più tradizionale, era che quello che lui rubricava come lotta per un supposto diritto (in senso dispregiativo) riferendosi all’aborto, era in realtà una lotta per un diritto ben più alto, quello all’autodeterminazione della donna (come ben cercò di puntualizzare Dacia Maraini in una intervista su L’Espresso del 22 ottobre 1972), tematica che non appare mai esplicitamente negli interventi dell’intellettuale (anche quando, nel medesimo articolo, parla di educazione sessuale, non ne parla mai nell’ottica di una maggior autonomia delle donne).
Inoltre, è ignorata (e questo dovrebbe far riflettere sul valore che la cultura, popolare e non, attribuisce a Pasolini in quanto “profeta del nostro tempo”) la forza che i poteri fascisti e clericali avrebbero avuto nell’impedire una completa legalizzazione dell’aborto (cosa che prenderà legislativamente la forma dell’obiezione di coscienza) mentre è ben chiaro lo spazio lirico concesso alla propria sensibilità (il “ricordo” della vita prenatale) e ciò che maggiormente riguarda Pasolini stesso (e lo interessa), il tema dell’omosessualità come diversità, “negritudine”, minoranza oppressa. (Pasolini non aveva –non poteva avere per una questione anagrafica e culturale- una visione intersezionale delle lotte per i diritti).
La donna, il coito e l’omosessualità
Quest’ultimo tema, che occupa in maniera più o meno manifesta, gran parte del pensiero dell’ultimo Pasolini e si configura sotto la tematica più generale del coito (e della sua regolamentazione da parte del potere neocapitalistico). Coito che, dunque, pone la donna in antitesi all’omosessuale, specialmente perché Pasolini (e questa è sì una questione anche di coordinate cronologiche) non pare concepire un rapporto omosessuale inter pares, ma sempre in funzione o esclusivamente erotica o pedagogico-sociale (non è un caso che il linguaggio metaforico più usato nel descrivere il rapporto omosessuale è proprio quello del rapporto padre-figlio o docente-discente, vedi Uno dei tanti epiloghi).
Questa opposizione è dovuta (e in questo le riflessioni pasoliniane hanno consonanze con quelle di Focault) allo sviluppo della società borghese: nei primi due film della Trilogia della Vita, Decameron e I racconti di Canterbury, il tema dell’erotismo diventa pura gioia e non vi è traccia di aspra contrapposizione (anche se l’omosessualità, nel secondo film, è dipinta come il comportamento attraverso il quale la cattiveria di Citti-Diavolo si espleta per la prima volta).
Questo rapporto di opposizione tra il maschile e il femminile è ricondotto a Freud nelle poesie di Trasumanar e Organizzar (1971) dedicate a Maria Callas (in particolare Timor di me? e La man che trema), dove Pasolini riconduce l’impossibilità di provare amore che sia anche desiderio per una donna proprio alla forma (in termini freudiani) del proprio inconscio, che non si riconosce nella figura archetipa del Padre.

Donne vittime del potere
Ma nell’opera di Pasolini la valutazione del femminile ha anche un altro ruolo socio-politico piuttosto complesso: è quello della vittima del Potere (cioè, usando una terminologia femminista contemporanea di chi subisce l’oppressione). Dunque per questo il “diverso” e la donna hanno qualcosa in comune: ecco che l’alter-ego narrativo dell’intellettuale può essere volto al femminile.
In questa ottica è stata interpretata sagacemente la sequenza centrale de Il fiore delle Mille e una notte: la tragica vicenda di Aziz e Aziza diventa specchio della crisi “politica e personale” del regista, che si identifica nella saggia e sfortunata Aziza. È l’amore, che non si basa tanto sulla forza erotica dei corpi (Aziza non è bella), quando sulla familiarità (Aziz e Aziza sono cugini), sulla dolcezza e sulla sapienza. All’opposto di Aziza c’è Budùr, misteriosa e sensuale, che è allo stesso tempo il motore della tragedia (per la sua bellezza conturbante Aziz lascia Aziza il giorno delle nozze) e la vendicatrice (a opera di lei Aziz viene infine evirato).
Entrano in gioco qui due facce diverse del femminile, una remissiva, buona, pronta a sacrificarsi, l’altra combattiva fin quasi a essere spregiudicata, vendicatrice.

La doppiezza femminile
Proprio il tema della doppiezza caratterizza altre due figure (anche) femminili dell’ultima produzione pasoliniana.
Nel frammentario Petrolio, il protagonista Carlo, dopo essersi sdoppiato in Carlo di Tetis e Carlo di Polis, si ritrova improvvisamente trasformato in donna; la caratterizzazione femminile si rivela soprattutto nelle preferenze sessuali di Carlo, sempre alla ricerca spasmodica di rapporti passivi col sesso maschile. Eppure questa sessualità non è, come stereotipo vuole, soltanto debolezza: c’è nel comportamento ammaliante e aggressivo di Carlo un’ambigua ferocia, come se l’essenza stessa dell’essere donna fosse un monstrum, incomprensibile e pericoloso.
La stessa doppiezza appartiene a un’altra figura femminile, la Patrizia de L’hobby del Sonetto: nella raccolta non finita, Pasolini traccia un’evoluzione della “rivale in amore”, da vittima insipida delle circostanze (e del potere del proprio sesso) a carnefice e tiranna nei confronti dell’innamorato Signore.
Chiudendo questa breve nota, non posso pensare che il tema dell’ambiguità dei ruoli di vittima e carnefice è uno dei temi portanti di Salò e proprio a una delle ragazze vittime è affidata la parte della delatrice, come a rimarcare la distruttività del ruolo della donna. Ma in mezzo all’inferno proprio due ragazze (insieme a una delle guardie e alla cameriera di colore, interpretata da Ines Pellegrini) diventano il simbolo della ribellione, del bene che nasce da e nel male: con crudo realismo, due delle ragazze vengono denunciate per un rapporto lesbico.
Perché l’amore, quando è anticonformista come quello omosessuale o interraziale è un atto di ribellione primitiva (anche se votato al fallimento), di cui anche e soprattutto le donne, sembra dirci Pasolini, sono capaci.