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Intervista a Simona Galassi, regina del pugilato italiano

GALASSI

Quando mi è stato chiesto di pensare a una donna da raccontare per il lancio di Pasionaria non ho avuto dubbi. Complice – lo ammetto – la mia febbre da boxe, sono andata dritta a Ferrara, dove Simona Galassi si allena ogni fine settimana sotto le direttive del maestro Alessandro Duran.

Perché proprio lei? Perché è una guerriera. L’orgoglio del pugilato femminile in Italia e all’estero, anche se non gode di una risonanza mediatica paragonabile a quella di alcuni colleghi uomini: Clemente Russo, per esempio, tanto per citarne uno. Eppure è la pugile più forte che il nostro Paese abbia mai avuto e una delle atlete più titolate al mondo: campionessa europea dei pesi mosca EBU nel 2007 e nel 2013, campionessa mondiale dei pesi mosca WBC nel 2008, 2009, 2010 e 2011 e dei pesi supermosca IBF nel biennio 2011-2012.

Una ragazzina – così la chiama il suo allenatore Duran – che a 42 anni ha vinto di tutto e di più, ma che non molla il ring e sogna un altro mondiale per chiudere col botto una carriera da urlo. Insomma, una leonessa. E io volevo incontrarla e scrivere di questa donna tutta pugni, sudore e passione.

Detto, fatto. Appuntamento a Ferrara prima del suo allenamento. Un incontro speciale, almeno per me che sul ring ci sono salita e che non smetterò mai di provare rispetto e ammirazione per chi ha il coraggio di combattere. Grazie a Simona per il tempo, la simpatia e quell’umiltà che è solo dei grandi campioni.

Ancora oggi il binomio donna – ring suona strano. Il tuo esordio nel pugilato risale al 2001, dopo sei anni di kick boxing. Com’era?

«All’inizio nessuno ci credeva, la donna coi guantoni era considerata un fenomeno da baraccone. Incuriosiva l’idea di vedere una zuffa tra femmine e non certo l’aspetto agonistico o la fatica che precede un match. Ricordo ancora quando Domenico Garavini, allenatore a Forlì, mi disse che non voleva donne in palestra. Ma a fine allenamento corresse il tiro con un “vieni quando vuoi”.

Per quanto mi riguarda, mi sono guadagnata subito un certo rispetto. Nella boxe ho sempre usato la testa, faccio molta autocritica, studio anche il più piccolo dettaglio. Sono una perfezionista. Quando dovevo gareggiare al primo mondiale in America mi mandarono a Roma per i vari test e Raffaele Bergamasco, mio maestro per il dilettantismo, ricevette una telefonata dalla capitale in cui gli comunicarono di aver rintracciato in me il profilo del campione. Sorrido ancora ripensando a quando mi ripeteva: “Simona, tu c’hai la cazzimma”».

Nella boxe gli uomini hanno oggettivamente più visibilità, perché?

«Non so. Se pensiamo a Clemente Russo, che pugilisticamente parlando a me neanche piace, ha sicuramente saputo cogliere il momento delle Olimpiadi per costruire il suo personaggio. Roberto Cammarelle ha un carattere diverso, è più riservato. Io ho sempre voluto fare solo l’atleta».

Che consiglio daresti alle aspiranti pugili?

«Prima di tutto non inciterei mai una ragazza a fare boxe, non mi addosserei la responsabilità di una scelta così personale. Potrei limitarmi a raccontare la mia esperienza, quella di una donna che si è conosciuta anche attraverso il pugilato. Ho scoperto aspetti di me che prima ignoravo, tra cui quello di avere una soglia di sopportazione del dolore molto alta e tanta determinazione. Questo sport tira fuori una parte di me che nella vita di tutti i giorni non c’è. Nella quotidianità sono una persona molto sensibile, dolce, anche debole. Sul ring una guerriera».

Al primo posto nella lista dei prossimi obiettivi c’è un altro mondiale, e poi?

«Per ora sto lavorando sodo per il mondiale con Alessandro Duran, spero di combattere in tempi ragionevoli e mi piacerebbe farlo in casa. Poi chissà. La Federazione mi vorrebbe come insegnante in nazionale, altri come socia di palestre. Non escludo neanche l’idea di una palestra tutta mia, ma non so ancora se me la sentirò di insegnare. So che sarei portata, ma è un ruolo diverso, difficile e comporta responsabilità importanti. Mi conosco e mi fido di me, ma meno degli altri».

Quali sono gli stereotipi più frequenti con cui ti tocca fare i conti?

«L’insolenza di certi ragazzi, per esempio, che appena arrivano in palestra mi guardano con aria di sfida e dicono che gli piacerebbe fare un match contro di me. O le domande di certi giornalisti: alcuni, con aria sbalordita, mi chiedono come mai una donna fa pugilato o se i pugni fanno male. È triste ammetterlo, ma in Italia c’è ignoranza sportiva. Grazie per avermi risparmiato certe domande».