La parola “femminista” non mi ha mai spaventato, mi definisco tale da quando ero adolescente e mi arrabbiavo per le veline che sculettavano a Striscia la Notizia e Flavia Vento accucciata sotto il tavolo di Mammuccari. La mia militanza, però, è cominciata molto tempo dopo: non è da tanti anni che ho deciso di dare un senso a questa rabbia partecipando attivamente a manifestazioni, gruppi e assemblee femministe.
Non solo con la redazione di Pasionaria, ma anche nel contesto di Non una di meno, sia come rete italiana che nei gruppi nati in Sardegna. Ci si sente e ci si vede soprattutto per redigere piani, organizzare sit-in, sfilare in corteo, “fare cose”. Spesso con il tempo contato, a causa di scadenze incombenti: gli articoli da pubblicare, lo sciopero dell’8 marzo, la giornata del 25 novembre…
Dibattiamo, ci scambiamo idee, prendiamo decisioni, scendiamo in piazza. Ma ho l’impressione che troppo spesso trascuriamo, o addirittura eludiamo, un reale confronto sui contenuti che vada oltre l’obiettivo delle “cose da fare”.
La facilità con cui siamo sempre connesse attraverso la Rete, si traduce in una grande forza collettiva ma anche, e ce ne accorgiamo, in un inaridimento del nostro potenziale personale e di gruppo: andiamo meno in profondità, troppo di fretta e capita di frequente che ci si parli al telefono e ci si veda solo quando non se ne può proprio fare a meno.
Ultimamente ne sto un po’ soffrendo. Pur essendo conscia dell’importanza cruciale della militanza, mi sembra che, talvolta, il suo senso più profondo mi sfugga dalle dita. Sempre più spesso ho l’impressione di andare avanti con il pilota automatico, sommersa dalle “cose da fare”, di fronte alle quali pare necessario mettere da parte tutto il resto, compreso sviscerare i conflitti e concedersi il tempo di confrontarsi a fondo.
Mi manca mettere in discussione me stessa e le certezze che sono convinta di avere. Mi manca un costruire dalle fondamenta, con calce e mattoni. Mi manca, a volte, una bussola che mi aiuti a venire fuori dalle difficoltà, le sfide e la stanchezza che la militanza femminista inevitabilmente comporta.
Per questo quando Roberta – psicologa e compagna di Pasionaria – mi ha proposto di organizzare insieme un laboratorio sulla scrittura di sé in piccoli gruppi, ho accettato subito. In poche settimane è nato “Parole Ribelli – Scrivi la tua nuova storia“, un incontro in cui sarà possibile riappropriarsi delle parole come strumento per riprendere in mano la propria storia, grazie soprattutto al confronto con l’altr*.
Il punto da cui partire mi è apparso subito la “scrittura di esperienza” che porta avanti da anni la femminista storica Lea Melandri, attraverso una serie di incontri in cui letture e scritture tentano “di spingersi in prossimità delle zone più nascoste delle coscienza, affidandosi a frammenti, schegge di pensiero, emozioni” e si incrociano per dare parola a esperienze destinate, altrimenti, a “restare mute o coperte dai sedimenti inconsapevoli della tradizione del senso comune”, come spiega Melandri in una delle presentazioni dei suoi laboratori.
La “scrittura di esperienza” mi appare uno degli strumenti più efficaci per recuperare quel partire da sé condiviso che era alla base della pratica femminista dell’autocoscienza, senza la quale non saremmo qui oggi, ma con cui molte giovani attivist* non sono mai entrate in contatto.
Una pratica grazie alla quale il privato diventava politico attraverso un esercizio di condivisione e confronto da cui maturava una consapevolezza collettiva, oggi data troppo spesso per scontata nei contesti femministi, dove oltre ai “sedimenti della tradizione” di cui parla Melandri, è facile riscontrare “sedimenti” di convinzioni e prese di posizione che spesso fatichiamo a rimettere in gioco, a decostruire per ricostruire insieme.
No, non penso che femministe e femminist* possano e debbano andare tutt* d’accordo. I femminismi sono tanti, così come le istanze che portano avanti, e il conflitto è inevitabile: a volte è costruttivo, altre molto meno. Ma questo è fisiologico di qualsiasi movimento politico e il femminismo non fa eccezione.
Credo, però, che la pratica dell’autocoscienza, intesa come esercizio di partire da sé per costruire una consapevolezza politica condivisa, possa essere ancora uno strumento estremamente potente, soprattutto in un contesto femminista intersezionale.
Se negli anni ’70, infatti, l’autocoscienza si praticava in contesti separatisti per la necessità di costruire una nuova soggettività femminile indipendente e autodeterminata, oggi il femminismo è un movimento in continuo divenire sempre più fluido, abbraccia molteplici soggettività e rivendicazioni, che spesso non si conoscono abbastanza, non si comprendono del tutto o addirittura non si legittimano tra loro.
Creare occasioni di incontro e confronto a partire dalla propria soggettività e dalla propria storia, private e politiche, possono – attraverso strumenti come l’autocoscienza o la scrittura d’esperienza – aiutarci ad allenare la pratica fondamentale dell’ascolto. Possono contribuire a stringere le maglie della nostra rete, non solo virtuale, e a trovare, costruire e inventare nuovi significati e contenuti al nostro agire femminista.
[ Se sei interessat* al laboratorio “Parole Ribelli” qua trovi tutte le informazioni! ]