Ho 32 anni e non voglio avere figli. Anche se tante volte da bambina ho detto il contrario, influenzata dal contesto sociale, non li ho mai davvero voluti.
Mi sono cullata per anni in quel “cambierai idea quando troverai la persona giusta, quando ti sentirai pronta” che tante persone mi ripetevano, sperando di cambiare idea e sentire di avere soddisfatto i requisiti minimi dell’essere donna secondo la società in cui vivo. Invece non ho cambiato idea. A cambiare è stata la consapevolezza di me stessa.
A 20 anni ero ancora indecisa sull’argomento, poi mi sono ammalata. Parte del mio pancreas ha deciso di andare in pensione decisamente anticipata e, a quanto pare, da allora sono diabetica. Suona ancora strano e terribile a 13 anni di distanza, eppure come dico spesso “sta roba non passa”, è cronica.
Insieme agli anni che passano cresce il peso della quotidianità con questa malattia: sono mentalmente sempre più stanca perché non esistono vacanze e pause. Attraverso periodi di gestione approssimativa di glicemie e alimentazione e di vero e proprio rifiuto dei divieti alimentari. Essere diabetica è un lavoro di cura che occupa tutte le 24 ore della giornata, sinché vivrò.
Risparmiatemi la solfa sulle persone che stanno peggio di me e sulla normalità della mia vita rispetto a chi ha altre malattie: posso parlare solo di come mi sento io e i paragoni non hanno senso. C’è voluto qualche anno perché mi rendessi davvero conto del significato delle parole “malattia cronica” per averle sperimentate nella vita di ogni giorno e perché capissi definitivamente che la mia priorità è la salute del mio corpo.
Nella mia vita non c’è spazio e non ce ne sarà mai per dei figli, e non è una scelta sofferta, è una consapevolezza raggiunta facendo i conti con la mia indole, la mia ansia costante e i miei alti e bassi con la depressione.
Come ogni patologia cronica, infatti, la mia presenta una forte relazione con i disturbi d’ansia e depressione. Mi ha fatto capire l’importanza di prendermi cura di me stessa prima di tutto, un impegno quotidiano a cui nei primi 20 anni della mia vita (ma anche dopo, sotto tanti aspetti) mi sono sottratta.
“Ma come? Ci sono tante donne che hanno la mia stessa malattia o patologie peggiori e hanno figli! Non devi rinunciare alla gioia della maternità per il tuo pessimismo, il diabete non è una tragedia. Forse non sei ancora pronta, devi aspettare e non devi buttarti giù”.
Ancora e ancora mi sento ripetere frasi come queste.
Forse è poco chiaro che la mia scelta è estremamente lucida. Il dogma sociale della donna madre non mi appartiene e non voglio sottoporre il mio corpo in equilibrio precario allo stress di una gravidanza che non desidero, né ora né domani.
Mi è stato detto che sono egoista perché voglio occuparmi solo di me stessa e non voglio dare la vita a una discendenza, che sono incapace di amare. Alle persone più insistenti rispondo di avere già un impegno totalizzante come un neonato, che comporta spese e preoccupazioni e che però, non diventerà mai indipendente.
La vita di una donna è complicata per tanti motivi, la vita di una donna con una malattia cronica lo è ancora di più, ed è legittimo sentire che una condizione patologica perenne non vada d’accordo con la maternità. È soggettivo ma legittimo.
Non devo farmi forza per andare incontro al destino di fecondità di ogni donna, non sto chiedendo di essere incoraggiata a superare un ostacolo, non mi sto commiserando né abbattendo. Non credo neppure che sarei una cattiva madre.
Semplicemente io sono la mia priorità e il mio dovere è quello di tutelare il mio corpo e la mia mente da complicanze della patologia e da imposizioni sociali che forse rendono felici e appagate altre persone, ma non me stessa.