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Perché il flop di Hillary Clinton non è una sconfitta femminista

Hillary Clinton risponde a una giornalista nella famosa immagine in cui scrive allo smartphone con gli occhiali da sole
Hillary Clinton: “Chi governa il mondo?”, “Le ragazze

Niente da fare: Hillary Clinton non sarà la prima presidente donna degli Stati Uniti.

Gli elettori e le elettrici del paese più influente del mondo hanno scelto come comandante in capo Donald Trump. Quello che, tra le innumerevoli uscite misogine di tutta una vita, ha dichiarato anche di poter fare alle donne quello che vuole e di “afferrarle per la figa” (“grab’em by the pussy“).

Se la sua vittoria rappresenta senza dubbio il trionfo del sessismo al potere, si può dire allo stesso modo che il sonoro tonfo di Hillary Clinton sia stato una sconfitta per le donne tutte e per il femminismo?

Per provare a capirlo, partiamo dai fondamentali.

Hillary Clinton era una candidata femminista?

Una premessa, per niente scontata, è d’obbligo: il fatto che una candidata sia donna non significa in alcun modo che rappresenti le istanze femministe. 

Ne avevamo già parlato nel caso di Theresa May, la prima ministra britannica entrata in carica lo scorso luglio, e lo ribadiamo per Hillary Clinton.

In Italia si fa ancora molta confusione su questo concetto, perché il termine “femminismo” viene usato quasi sempre nei media con molta superficialità, associandolo al “femminile” in modo generico e confuso (per questo i link riportati in questo articolo sono quasi tutti di testate americane o inglesi).

Se una donna può oggi assumere certe posizioni di potere a cui prima non poteva neanche ambire è indubbiamente grazie alle conquiste femministe e comporta un passo avanti importante nella rappresentatività, ma ciò non significa che il suo genere la renda automaticamente portatrice di valori femministi.

Anzi: pensare che una presidente donna sia meglio di un presidente uomo solo perché ha una vagina, è un’idea che squalifica le lotte femministe.

Quindi, per tornare alle elezioni Usa, sostenere Clinton solo in quanto donna non può essere considerata una rivendicazione femminista. E difatti la sua candidatura ha spaccato in due il panorama femminista statunitense e non solo.

Hillary Clinton: Una donna presidente nel 2016? Questo sì che è divertente! (gioco di parole tra le parole Hillary e hilarious)
Una donna presidente nel 2016? Questo sì che è divertente! (gioco di parole tra Hillary e hilarious)

Le voci a favore e quelle contrarie

La frattura più netta è stata quella tra le femministe considerate mainstream (cioè più vicine alle espressioni politiche, culturali ed economiche della classe dominante), che hanno dichiarato pubblicamente il proprio appoggio per Hillary, e le femministe più giovani e legate ai movimenti che si occupano di giustizia sociale, che alle primarie hanno appoggiato il suo avversario – poi sconfitto – Bernie Sanders.

Per quest’ultime militanti, tra cui rientrano le femministe intersezionali che – come noi di Pasionaria – lottano tenendo conto delle diverse oppressioni e discriminazioni che si intrecciano con quelle legate al genere, Clinton rappresenta l’establisment, quel sistema di potere che la controcultura, di cui il femminismo fa parte integrante, ha sempre combattuto.

Le maggiori criticità sono state per la sua politica estera molto aggressiva e per l’appoggio a un sistema neoliberista che difende gli interessi economici aziendali prima che i lavoratori e le lavoratrici e affama le classi sociali più in difficoltà.

Per quanto riguarda l’emancipazione femminile, invece, le femministe che la criticano pensano che Hillary rappresenti solo una certa categoria di donne: la sua. Ossia quella composta da bianche benestanti e istruite.

Benché durante la sua campagna Clinton abbia espresso vicinanza e sostegno a musulmane, afroamericane e latine, secondo chi la attacca, le sue azioni politiche passate hanno sempre marcato una netta distanza tra lei e le donne più svantaggiate.

Per non parlare delle sue posizioni contraddittorie nel tempo sui diritti riproduttivi e su quelli lgbti.

Quindi, anche se lei si è espressamente dichiarata femminista, era naturale chiedersi: quale tipo di donna e di femminismo rappresenta Hillary Clinton?

Da una parte la National Organization for Women (la più grande organizzazione femminista degli Usa) ha fatto parte integrante della campagna di Clinton, dall’altra una schiera di femministe ha redatto una serie di saggi raccolta nel libro “False Choices: The Faux Feminism of Hillary Rodham Clinton” (Scelte ingannevoli: il falso femminismo di Hillary Rodham Clinton).

E tra le attiviste che hanno fatto la storia del femminismo, se Gloria Steinem si è apertamente schierata a favore dell’elezione di Clinton, bell hooks, dopo un’iniziale sostegno ha dichiarato di non volerla più appoggiare, con la seguente motivazione: “Ci sono cose che non voglio avallare a nome del femminismo, cose che io trovo militariste, imperialiste, legate alla supremazia bianca, sia che vengano portate avanti da donne che da uomini”.

Angela Davis, da sempre ostile nei confronti di Clinton, solo poco prima del voto si è esposta affermando che la priorità era fermare Donald Trump “a qualsiasi costo”.

Più importante sostenere Clinton o sconfiggere Trump?

La dichiarazione di Davis è particolarmente significativa perché esprime lo sconforto di chi si è ritrovata a scegliere tra una candidata da cui non si sentiva rappresentata e un avversario che incarna l’incubo di qualsiasi femminista di ogni ordine e grado (e a quelle italiane ricorda pericolosamente il buon vecchio Silvio).

Scegliere il male minore, dunque?

L’esito delle elezioni ci dice che per la maggior parte delle persone indecise lo spauracchio di Trump non è stata una motivazione sufficiente per votare Hillary.

A dare loro voce ci aveva pensato l’attrice Susan Sarandon. Attivista di sinistra e sostenitrice di Sanders, in una intervista aveva dichiarato che tra Clinton e Trump non aveva importanza chi vincesse: “Il denaro ha preso il controllo del nostro sistema, per cui per me non fa differenza”.

Questa visione, apparentemente sensata e condivisa da tanti, in realtà è inaccettabile dal punto di vista femminista, specialmente intersezionale.

Le parole di Sarandon, infatti, sono quelle di una donna che non tiene conto del suo privilegio: quello di donna bianca, ricca, famosa e istruita. Una donna la cui vita, effettivamente, non cambierà di una virgola ora che ha vinto Trump.

Ma la questione è ben diversa per moltissime altre fasce della popolazione: la vita delle persone immigrate, dei lavoratori e delle lavoratrici, delle donne che non hanno voce e di chiunque si occupi di giustizia sociale, peggioreranno notevolmente se Trump porterà davvero avanti l’agenda politica dichiarata durante la campagna elettorale.

Proprio il privilegio è stato il vero protagonista di questa campagna elettorale, che non per niente è stata definita una delle peggiori della storia degli Stati Uniti.

Due avversari privilegiati, ognuno a suo modo, dal denaro e dal potere si sono contesi la guida del mondo. E a vincere è stato chi di questo privilegio non si vergognava. Chi, anzi, ne faceva bandiera. Chi l’ha usato non per blandire, ma per spaventare, dividere, dare voce all’arroganza e imporre la legge del più forte.

Niente di nuovo sotto il sole.

E ora che si fa?

Per noi femministe è importante prendere atto che Trump non ha vinto nonostante la sua misoginia, ma (anche) grazie a questa.

La maggior parte degli elettori americani, ci dicono le urne, non solo non ha trovato nel grave sessismo del candidato repubblicano (che, ricordiamo, è stato più volte accusato di molestie e violenze) un ostacolo alla sua presidenza, ma anzi ha apprezzato la sua pressoché totale mancanza di interesse nel cercare di nasconderlo.

Diciamocelo chiaramente, per le femministe non è tanto una batosta la sconfitta di Hillary, ma il trionfo di Trump.

Partiamo da qui per rimboccarci ancora una volta le maniche, con ancora più motivazione e decisione di ieri.