S.O.S. Starification Object Series: An Adult Game of Mastication (1974-1975), è una serie di fotografie in cui l’artista americana Hannah Wilke si fa ritrarre a torso nudo con la pelle punteggiata da minuscole vagine modellate col chewing gum. Nelle immagini, di un bianco e nero patinato, l’artista appare con tutta una serie di “attrezzi scenici” che vanno dalle cravatte, agli occhiali, ai cappelli, ai turbanti mentre enfatizza le pose che le modelle e le dive assumono sulle riviste femminili.
Originariamente pensate per essere incluse in una sorta di gift box, le immagini erano realizzate con l’aiuto del pubblico, a cui Wilke distribuiva dei pacchetti di gomma da masticare all’ingresso della galleria dove avrebbe avuto luogo la performance. Una volta toltasi la camicia, l’artista si faceva riconsegnare le gomme masticate dai presenti, le modellava velocemente in forma di vulva per applicarsele poi sulla pelle ed infine farsi scattare le foto da un professionista.
Secondo l’artista, questo assecondare gli stereotipi maschili e l’adeguarsi ai canoni di bellezza e desiderabilità erotico-sessuale della cultura occidentale era il percorso che avrebbe fatto di lei una star. Un rito di passaggio che, come nei rituali africani di scarificazione, lasciava sulla pelle i suoi segni, le sue cicatrici.
La critica non la premiò. Lucy Lippard, portavoce dell’arte femminista degli anni ’70, stigmatizzò Hannah Wilke definendola “feminist and flirt”, e il suo offrirsi come bellissimo oggetto del desiderio sessuale maschile, attraverso l’ostentazione di pose ed espressioni di disponibilità, le procurò molte accuse di ambiguità e narcisismo. Un’artista, che è anche una bellissima donna, si offre nuda e disponibile agli sguardi altrui? Per le femministe contemporanee era più rafforzare, che sovvertire, la scopofilia maschile.
Sicuramente c’è ambiguità in questa artusta, generata dal conflitto tutto personale tra la consapevolezza del femminismo e il desiderio di apparire attraente agli occhi maschili, che la stessa artista svela quando parla della “ethics of ambiguity” che contraddistingue la sua arte e la sua vita.
Sicuramente c’è narcisismo, è il mezzo fotografico stesso a generarlo in quanto specchio, rimando fedele di sé, ma è un vitale esibizionismo narcisista che unito all’eversività dell’atto performativo crea una miscela esplosiva in grado di riscrivere l’identità del corpo femminile, di proporlo come soggetto che afferma la propria autonomia concettuale e creativa, perché da sempre il corpo per le donne è interfaccia privilegiata col il mondo oltre che strumento di potere e simbolo di frustrazione.
Wilke infatti qui, come in tutta la sua produzione, si fa volontariamente oggetto delle proiezioni sessuali del desiderio maschile, trasformandosi in aggressivo soggetto erotico che gestisce la propria immagine e reclama il controllo creativo sul proprio corpo, allo stesso tempo, con l’applicazione delle cicatrici simboliche introduce un elemento disturbante che interrompe il piacere voyeuristico dello sguardo attraverso lo spettro della vulnerabilità e del decadimento.
Hannah Wilke (1940-1993) viene comunque considerata un’artista concettuale della seconda ondata femminista. Nel 1959 utilizza l’immagine di una vulva per una scultura in terracotta. La forma della cunt (o come qualcuno l’ha garbatamente ribattezzata “fortune cookie-like“) diventa il suo segno distintivo.
Il corpo e la sessualità femminili sono il suo campo d’indagine, ricerca che sviluppa attraverso una molteplicità di materiali (oltre al chewing gum e la terracotta, anche il latex e i residui di stoffa) e di tecniche (scultura, disegno, acquerello, body art, video performance, fotografia).
Ma le sue aggressive parodie degli stereotipi sessuali, che in anni successivi faranno di lei una madrina spirituale di artiste post-femministe come Tracy Emin o di artiste interessate al self-portrait come Cindy Sherman, non attirano il favore della critica femminista, che comprende a pieno la portata sovversiva della sua arte solo con “Intra Venus” (1992-1993). L’opera esposta postuma è una monumentale, lucida ed impietosa documentazione fotografica degli effetti devastanti sul suo corpo del linfoma che l’avrebbe condotta alla morte.