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Generi, la necessità di un pensiero critico: intervista a Federico Zappino

Aggiornamento del luglio 2024: l'intervista, pubblicata originariamente su questo sito nel 2017, è stata inserita nella sua versione integrale nel libro "Un materialismo queer è possibile" di Federico Zappino, Mimesis Edizioni

Due ragazze si baciano sedute in mezzo alla strada di fronte a un cordone della polizia in tenuta antisommossa
Copertina del libro “Il genere tra neoliberalismo e neofondamentalismo” – foto di Michele Lapini

Da quando leggo Federico Zappino mi sento meglio, ma anche peggio.

Mi sento meglio perché è tra i filosofi più lucidi sulla scena, capace di analizzare questioni complesse riuscendo a mantenere un punto di vista situato e militante senza però sciogliere, banalizzare o nascondere le contraddizioni.

Mi sento peggio per gli stessi motivi. Perché Zappino non fa sconti, né a se stesso, né agli altri. Ci costringe sempre a vedere i limiti delle nostre contronarrazioni, a non adagiarci su letture comode, e magari anche efficaci, che però lasciano fuori esperienze e saperi irrinunciabili.

Traduttore del classico del queer di Eve Kosofsky Sedgwick, Epistemology of the Closet (Carocci 2011), di diversi saggi di Judith Butler, tra cui Fare e disfare il genere (Mimesis 2014) e il recente L’alleanza dei corpi (Nottetempo 2017), il suo ultimo libro è il collettaneo Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo (ombre corte 2016): questa intervista verte sul gender, sul rapporto tra studi di genere e accademia, sul divario tra le politiche identitarie e le politiche queer, ma vuole sondare soprattutto le contraddizioni che un pensiero critico apre all’interno di un generico progressismo che spesso sceglie la strada più facile, con la scusa di dover combattere le destre in modo semplice e chiaro.

Quest’intervista è animata dal sospetto che la strada più facile, lastricata di discorsi semplici e chiari, non ci conduca in posti fantastici.

“Il genere e l’orientamento sessuale sono costruzioni sociali”; “il genere, come l’orientamento sessuale, è quello che senti/quello che scegli”. Queste due affermazioni sono tra loro contrastanti, ma entrambe gravitano, spesso simultaneamente, nella galassia di movimenti politici, prospettive teoriche e percorsi individuali che potremmo genericamente definire “progressista”. Puoi spiegarci perché?

Credo che si tratti di posizioni che tengono entrambe aperte la possibilità, benché in modi diversi, di contrastare quelle prospettive conservatrici, tradizionaliste, talvolta reazionarie, secondo le quali i generi e gli orientamenti sessuali siano naturali e autoevidenti (anziché socialmente costruiti) e, di conseguenza, predeterminati, o imponibili (anziché frutto di una scelta, o di una percezione individuale).

Come dici bene, tuttavia, le due posizioni sono tra loro in contrasto. Se diciamo che i generi o gli orientamenti sono costruzioni “sociali” stiamo in qualche modo sostenendo che tali costruzioni eccedano le mie scelte “individuali”, che in qualche modo si pongano come sfondo delle mie percezioni e che, in modo determinante, le condizionino.

Se invece diciamo che i generi e gli orientamenti sono una questione di scelte, o talora di gusti, sosteniamo più o meno implicitamente che si tratti interamente di questioni individuali, psichiche, o forse addirittura idiosincratiche, che nessun rapporto intrattengono con il mondo così com’è organizzato, e dunque con il fatto che alcune forme di soggettivazione di genere e sessuale siano privilegiate, incoraggiate, meticolosamente trasmesse e impartite, e altre decisamente meno, osteggiate, ridicolizzate, abiette, o concesse al prezzo dell’invivibilità.

Per come le leggo, le torsioni più individualiste della preminenza della “scelta” e delle sue declinazioni – tra cui includo anche certe retoriche dell’ “autodeterminazione” –, ci parlano di un sovranismo proprietario di matrice liberale in seno alle prospettive progressiste, che io reputo ovviamente preoccupante.

Le torsioni più costruttiviste, tipiche degli “studi di genere”, rinunciano invece al proprio potenziale radicale nel momento in cui non problematizzano fino in fondo la matrice eterosessuale dalla quale dipende innanzitutto l’intelligibilità dei corpi, delle differenze e delle relazioni di questi corpi tra loro, e che dunque determina ciò che intendiamo per “costruzione” del genere.

Che tipo di promessa può derivare da una concezione costruttivista del genere che poggia comunque sulla naturalizzazione della matrice eterosessuale e dunque del binarismo eteronormativo? La naturalizzazione del binarismo, infatti, è il fondamento della costruzione e della riproduzione del genere come necessario, nonché come rapporto sociale sacrificale.

Dopo che ci siamo detti che il genere è una costruzione sociale come proseguiamo il discorso? Come affrontiamo il fatto che la costruzione stessa divenga intelligibile solo ed esclusivamente mediante relazioni tra posizioni sociali privilegiate e abiette? Come si demolisce questa costruzione?

Non è necessario che sia il “facile nemico” a imporre o tutelare il binarismo, che si tratti del fascista, del razzista o dell’intollerante fondamentalista. Se pensiamo questo, manchiamo di vedere che il genere struttura il nostro senso comune, e dunque anche la naturalizzazione delle diseguaglianze che quel senso comune produce, in modi tali che le cosiddette “differenze” pervengano a intelligibilità solo mediante una relazione gerarchica e sacrificale tra loro.

Come ha affermato recentemente il Laboratorio Smaschieramenti, “la violenza di genere è prodotta dalla violenza del genere, dall’imposizione di due generi normativi a sostegno dell’eterosessualità obbligatoria, all’interno di una cornice familista e riproduttiva”. E, in un certo senso, la mia intera riflessione verte attorno a questa domanda: come possiamo lottare contro le diseguaglianze di genere senza con ciò reiterare ciò che costantemente produce le differenze di genere? Lottare in questo senso significa confrontarsi col mondo così com’è, con le sue relazioni così come sono organizzate, ma senza riprodurle.

Penso infatti che non siamo ancora nelle condizioni di stabilire dove finiscano le oppressive e violente diseguaglianze, e dove inizino invece le libere, plurali, ed egualmente vivibili, differenze. Ciò sarebbe possibile solo se la sovversione dell’eterosessualità come matrice di produzione del genere e come sistema sociale gerarchico fosse già avvenuta, e vivessimo in un mondo “post-gender”, come alcuni pure sostengono. Io però non lo sostengo.

Si può continuare a leggere il seguito dell’intervista, in versione integrale, nel libro “Un materialismo queer è possibile” di Federico Zappino, Mimesis Edizioni, 2024