Trentamila euro per dodici mesi. Tanto verrà assegnato dalla Regione Lombardia al “telefono anti-gender“, curato dall’Age, associazione di genitori ultra cattolici, che ha vinto il bando per lo “sportello famiglia” . Prima promotrice dell’iniziativa è l’assessora regionale alla Cultura Cristina Cappellini, della Lega Nord, già contestata per aver organizzato un convegno in difesa della famiglia naturale utilizzando il logo di Expo, e a cui parteciparono esponenti del mondo cattolico più intransigente.
L’assessora spiega così le funzioni principali del servizio: “Compito dello sportello è quello di fronteggiare eventuali casi di forme di disagio nel percorso educativo degli alunni, avendo come stella polare i valori non negoziabili della famiglia naturale e della tutela della libertà educativa in campo alla famiglia stessa”. Aggiungendo: “Costituirà anche un valido strumento di contrasto all’ideologia gender“.
Probabilmente l’assessora finge di non sapere che la teoria gender, ben diversa dagli studi di genere, non esiste.
È un qualcosa che i cattolici intransigenti e conservatori reazionari si sono inventati per combattere chi vuole promuovere la parità di genere, educare alle differenze, alla risoluzione non violenta dei conflitti e alla libera espressione della personalità, contrastando il sessismo, gli stereotipi, il bullismo e l’omofobia.
Con lo “sportello anti-gender” l’assessora non solo si pone nettamente in antitesi con la riforma della “Buona Scuola”, che prevede “attività finalizzate all’attivazione di percorsi educativi di lotta alla discriminazione per orientamento di genere”, ma sperpera prezioso denaro pubblico, che – in un momento in cui le Regioni hanno subito ulteriori pesanti tagli dai finanziamenti statali – si potrebbe investire, invece che contro qualcosa che non esiste, in iniziative decisamente più utili e necessarie alla collettività, come i centri antiviolenza, sempre più a secco di finanziamenti anche in Lombardia.
Che l’Italia abbia un estremo bisogno di educazione affettiva e di genere non lo si evince solo dai terribili dati sui femminicidi, ma anche e soprattutto da una cultura diffusa nella quotidianità che avvalla continuamente il dominio dell’uomo sulla donna.
Una cultura portata avanti sia da uomini che da donne, il più delle volte senza nemmeno riconoscerla come tale. Ed è esattamente in questo modo che si alimenta, proprio perché non c’è consapevolezza, quella consapevolezza che l’educazione affettiva vuole invece insegnare.
Per esempio, rivolgersi alle donne con commenti offensivi come “cagna” sarebbe satira e non sessismo, secondo i conduttori di Radio Globo: un caso denunciato da Pasionaria su cui è intervenuta anche la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, sottolineando la gravità della violenza verbale.
E per il leader della Lega Matteo Salvini chiamare “bambola gonfiabile” la presidente della Camera Boldrini sarebbe una battuta divertente, non un insulto sessista. Non stupisce che ad essere in prima fila a sbellicarsi dalle risate fosse proprio l’assessora Cappellini, che tanto osteggia l’educazione affettiva: “Ma quale attacco sessista: è solo una battuta buttata lì sul palco in un clima goliardico”.
Ci si dimentica troppo spesso che le “parole sono importanti”, e in questo modo non si fa altro che far apparire come una prassi normale e accettabile la riduzione della donna a oggetto sessuale, banalizzando di conseguenza la violenza sessuale.
Questi episodi apparentemente innocui, così come atti più gravi quali stupri e femminicidi, sono il derivato del medesimo contesto: una cultura maschilista e patriarcale fortemente radicata e difficile da estirpare quando proprio coloro che ci rappresentano combattono il mezzo più potente, l’educazione.
L’Italia è tremendamente in ritardo. Il nostro paese nel 2013 è stato tra i firmatari della Convenzione di Istanbul e, tra le altre cose, si impegnava a inserire nei curricola scolastici l’educazione affettiva, ritenuta l’unico antidoto per contrastare la violenza di genere (Articolo 14). Tuttavia, solo il 27 giugno di quest’anno è iniziato l’iter parlamentare sulla sua introduzione nelle scuole. La deputata di Sel Celeste Costantino aveva presentato una prima proposta di legge già nel 2013, iniziando poi la campagna #1oradamore e girando tutta la penisola per presentare il progetto e mantenere viva l’attenzione sulla proposta di legge. Uno degli scopi dell’educazione affettiva, scrive Costantino, è proprio “non far più immaginare la donna come un oggetto, ma come un soggetto”.
Il “telefono anti-gender”, dunque non fa altro che che combattere, con l’appoggio delle istituzioni, lo strumento più efficace per prevenire la violenza di genere e per forgiare una generazione impegnata a costruire attivamente una società egualitaria per il bene di tutte e di tutti.
[Di questi temi si parlerà anche alla terza edizione di Educare alle Differenze, organizzata dall’associazione Scosse, a Bologna il 24 e 25 settembre, a cui anche quest’anno parteciperemo!].